Vi racconto di me – Teresa Donadeo

Sono nata nel 1939 a Spongano, un paese in provincia
di Lecce di poche migliaia di abitanti. Sembra
che il suo nome derivi da Spolium cioè spoglie, avanzi,
riferendosi al fatto che il paese si sia formato con i
resti delle popolazioni di Vaste oppure di Castro, alla
cui Contea appartenne fino al 1806. Dopo di allora la
storia di Spongano si intreccia con quella dei Baroni
Bacile di Castiglione, ultimi feudatari, di cui si può
ancora ammirare il Castello.
La sua economia è sempre stata legata per lo più
all’agricoltura, non essendoci altre risorse, né industrie
sul territorio. Molti abitanti, a partire dagli anni
’50 hanno lasciato il paese alla ricerca di un lavoro recandosi
al nord, oppure addirittura all’estero per poi
fare ritorno al paese da anziani, magari con la possibilità
di condurre gli ultimi anni di vita in condizioni
agiate, avendo risparmiato per tutta la vita.
Tornando alla mia storia, io ero la più piccola di
quattro sorelle e la mia famiglia era di tipo tradizionale:
mio padre era un tipo dispotico, con una mentalità
arretrata, comune a molti uomini di quei tempi
al sud, mentre a mia madre era stato affidato dalle
consuetudini il compito di occuparsi della casa e di
crescere noi figlie nel migliore dei modi.

Quando nacqui io, mio padre era appena partito
per il fronte. Quelli erano gli anni della seconda guerra
mondiale e lui era stato reclutato senza avere possibilità
di scelta, quindi era partito senza sapere neanche
dove lo avrebbero mandato.
Io crescevo in una famiglia di sole donne, senza la
certezza che un giorno lo avrei conosciuto perché non
sempre dalla guerra si tornava vivi. E invece lui tornò
sulle sue gambe quando io avevo cinque anni.
Ero piena di gioia al pensiero di conoscerlo. Quando
arrivò, tutti i parenti, grandi e piccini gli stavano
intorno, felici che fosse tornato.
Lui, salutandoci, cominciò a distribuire dei panini
di farina bianca, ma quando fu il mio turno i panini
erano finiti. Mi prese in braccio e, per consolarmi, mi
promise che il giorno dopo avrebbe cercato di comprarmeli.
In realtà io non ero dispiaciuta per non aver
avuto il panino, ma perché lui non aveva pensato di
darlo a me prima che agli altri.
Sapevo che il pane si poteva avere solo con la tessera,
ma a noi non mancava mai perché la mamma lo
faceva in casa utilizzando la farina ricavata dal nostro
grano.
Lei impastava ogni mese un quintale di farina, con
metà dell’impasto faceva pagnotte che duravano per
quindici giorni, con l’altra metà preparava le “frise”
che, una volta cotte, venivano riposte in grandi “capase”
di creta, dove mantenevano la loro fragranza
per un intero mese e quindi le mangiavamo quando
finiva il pane.