Il barbiere siciliano – Vincenzo Malavolti

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Da un po’ di tempo c’è dentro di me qualcosa che mi spinge a raccontarmi, a confessarmi, a comunicare al prossimo tutto quanto mi è successo e ho sentito raccontare da quando sono nato. Forse è un bisogno nato in me nel momento in cui pensavo che la mia vita non importasse più a nessuno.

Ero svuotato e allora, nella coscienza della morte che preme sulla vita, come il tenue alone che vediamo nel crepuscolo della sera circondare la luna, nell’anelito di un ultimo battito di ali, ho incominciato a fissare sulla carta i miei ricordi, i miei sogni, la mia visione del mondo…

Forse questo mi viene dettato dal particolare bisogno nato dall’esigenza di sentirmi ancora vivo, anzi più vivo e, contemporaneamente, dalla coscienza della mia mortalità.

Il senso della morte nella mia vita c’è sempre stato, forse per avere schivato, non so nemmeno io quante volte, la sua falce, ma ultimamente c’è il timore che la sua mira si sia fatta più precisa nei miei riguardi…

Sarà forse per questo che mi è presa un’improvvisa voglia di scrivere e narrare, o sarà stato per una strana voglia di tardivo protagonismo.

Non lo so, ma, contrariamente a quello che mi succedeva un tempo, adesso non ho più timori a buttar fuori i tanti episodi del mio passato, di questa mia esistenza, vissuta un poco da protagonista e spesso da comparsa.

In fondo, andare al cinema o a teatro, e ancor di più… seguire i programmi televisivi, altro non è che l’espressione più semplice della curiosità di sapere, di approfondire i fatti della gente famosa o no, e di trovarvi il riflesso di noi stessi, della nostra coscienza e del nostro immaginario. Quando partecipiamo come spettatori a un qualsiasi tipo di rappresentazione, ci proiettiamo nella dimensione dei personaggi fino a entrarvi, a essere con loro, a essere, noi, essi stessi.

E’ una sensazione che però sublimiamo con la lettura.

Mentre sfogliamo le pagine di un libro, ci leghiamo in modo tale con lo scrittore, entriamo in un dialogo talmente stretto con lui che lo seguiamo, brano dopo brano, ne diventiamo intimi amici, cominciamo pian piano a fidarci di lui e, insieme a lui, ci facciamo portare nei luoghi più misteriosi della foresta della sua fantasia, sino alla fine della narrazione.

 

E’ per questo motivo che, dopo aver letto centinaia di libri, mi sono posto una domanda: perché non provare una volta tanto a dismettere gli abiti del lettore e diventare io… il narratore?

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Estratto

Capitolo I

Il sole splendeva già. Il cielo era limpido e terso in quella fredda mattina di primavera del 1933. La neve si era sciolta ormai del tutto, sulle colline che sovrastavano una cittadina dell’Appennino tosco-romagnolo.
Si trattava in fondo di un grosso paese, incastonato fra le rocce, il gesso e i calanchi e in più, come a volerlo recintare dall’alto, spiccavano, visibili anche da lontano, tre caratteristiche cime.
Ciascuna, nata come se dal profondo della terra fossero spuntate delle piccole unghie di pietra, conservava da secoli un suo segno del passato.
A destra, sullo sprone più acuto, svettava verso il cielo la grande antica torre dell’orologio con i suoi tipici numeri romani che metà della gente del posto stentava a capire.
A sinistra, dove il costone era più dolce e staccato dagli altri due, c’era come adagiata una chiesetta di più recente edificazione, ristrutturata nel tardo Ottocento.
Al centro troneggiava la Rocca, una costruzione medioevale voluta dai Manfredi di Faenza, poi ingrandita dai veneziani e conquistata, a suo tempo, anche dal Duca Valentino. Storie di improbabili tresche e omicidi a sfondo amoroso, che potevano aver avuto come protagonisti sia lui che la sorella, la leggendaria Lucrezia Borgia coi suoi veleni, avevano ingrossato la fantasia popolare.
In quel luogo sembrava proprio che l’uomo avesse voluto imprimere nella natura, con le sue opere, con la sua forza, i simboli del suo potere: quello politico, quello militare e quello religioso.

Coi suoi calzoni corti, la sciarpa di lana al collo per il freddo pungente del primo mattino, Domenico Fontana uscì di casa salutando la madre Irene. Inforcò la bicicletta con la rapida destrezza dei suoi tredici anni e guardò la torre dell’orologio che gli stava proprio sopra, per sapere l’ora esatta. La fissò con le sue pupille acute, nerissime come i capelli, poi scosse il capo. Forse colpa del fatto che a scuola non era mai stato un fenomeno, ma quei numeri proprio continuavano a non andargli a genio.
Indugiò più volentieri, con gli occhi e con la fantasia, sul castello, pensando alle notti e agli amori della bionda Lucrezia Borgia, consumati durante le sue presunte fughe da Ferrara. Quella del corpo femminile era una materia che gli interessava molto più della matematica e non vedeva l’ora di passare, dalla teoria dei racconti degli amici più grandi, ai fatti.
S’infilò i guanti e, guardando la chiesa, si fece come d’abitudine un rispettoso quanto rapido segno della croce, volto anche a rintuzzare un lascivo pensiero. Quindi, si passò una mano tra i folti capelli neri e cominciò a pedalare verso il centro del paese.
Lentamente e con un fare da ciclista elegante, percorse i vecchi larghi gradini che separavano la sua abitazione da un’antica via coperta. Era una specie di mulattiera, in passato usata dagli asini che portavano materiali vari allo stabilimento adibito alla lavorazione del gesso, edificato fra i colli.
Reggendosi sulla sella come un equilibrista, superò di slancio il tortuoso viottolo che introduceva in una larga strada, quella dove si svolgevano una parte del mercato settimanale, con le bancarelle, e le sagre dedicate ai prodotti della vallata.
Per quella caratteristica del paese, che aveva il centro nella parte più bassa, Domenico poteva manovrare il suo veicolo a due ruote lungo la discesa mostrandosi come un pavone. E ci teneva a farsi vedere, anche perché la sua nuova fiammante bicicletta era il regalo di compleanno avuto dalla mamma Irene.
Si fermò solo quando arrivò davanti all’edicola principale del paese.
Accompagnandosi con una squillante scampanellata, urlò verso l’interno: «I giornali per Beppe!».
Prontamente, una mano allungò un pacco di riviste e quotidiani che Domenico sistemò dentro il portapacchi. Poi, riprese la sua discesa.
Nel passare davanti al negozio di tessuti tergiversò un poco. Gli piaceva la moda, e la vetrina esponeva sempre eleganti abiti maschili, ma soprattutto gli piaceva scorgere, attraverso i riflessi, le forme delle sartine e delle apprendiste. E quelle non si sottraevano per niente alla curiosità maschile, anzi rispondevano con occhiate e sorrisini che accrescevano in lui la vanità.
Era quello il mondo che lo attraeva, che gli aveva fatto abbandonare gli studi poco dopo la licenza elementare. Andava sempre più di malavoglia a scuola, non ce la faceva proprio a stare inchiodato sui libri: si considerava ormai pronto per il lavoro. Pensava in cuor suo di avere già imparato a sufficienza; il resto lo avrebbe appreso in seguito, vivendo. Così, ancor prima di finire il ciclo medio, nonostante il disappunto della sorella Concetta, aveva smesso di frequentare l’istituto.
Aveva preferito andare a fare l’aiutante nel negozio del cognato Giuseppe Massaro, detto Beppe, il barbiere di Sicilia, un professionista di prim’ordine con forbici e pennello. In bottega Domenico si era inserito a meraviglia e subito, con l’entusiasmo dell’adolescente. A lui piaceva ascoltare i discorsi dei signori del paese, tenersi aggiornato sulla moda, pettinarsi come un divo del cinema.

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