Ho imparato a nuotare con una zucca – Virgilio Dominici

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Mio nipote Giacomo nel 2008 si trasferì a casa mia per essere più vicino a Firenze, frequentava il Liceo Artistico L.B Alberti. Rimanendo a Borgo San Lorenzo, suo comune di nascita, quell’Istituto gli rimaneva troppo disagevole. Quell’anno frequentava la seconda, quando tornava raccontava la sua giornata scolastica, come era l’aggregazione con gli amici e quanto aveva appreso prendendo passione per lo studio. Gli dicevo quanto fosse importante la scuola per un giovane come lui e che la doveva coltivare come fanno i contadini con il podere, che seminano a Primavera o Autunno per raccogliere in Estate; gli ricordavo che non ho mai smesso di frequentare la scuola, e che occorre accrescere la propria persona 365 giorni l’anno, senza farsi “poveri e coglioni”. Gli dicevo che si avviava ai 18 anni e che doveva pensare a una scelta di vita e farsi un ideale; che con la maggiore età, la Società avrebbe imposto certe scelte e certi programmi per essere autonomo dalla famiglia. Gli raccontavo dei giochi che facevo da bambino, come stavo con gli amici, della mia scelta di vita e dell’ideale politico per cui ho sempre creduto e lottato affinché si affermasse. Gli parlavo del lavoro e di quanto fosse stato duro mantenerselo nei primi anni di attività come operaio senza qualifica. Un giorno, all’ombra di un albero nel giardino, parlando di questi argomenti, mi disse: “Nonno, perché questi racconti non li scrivi?”. Cominciai a scrivere su due grossi quaderni e non bastarono. Avevo scritto tante pagine facendo con la memoria a ritroso il percorso della mia vita: quando giocavo in cortile con i giocattoli fatti dal nonno e poi da più grande, con gli amici nelle aie dei contadini; il periodo della guerra con i bombardamenti; i fascisti, i tedeschi, le riunioni fatte di nascosto da mio padre; coi partigiani che venivano di notte in casa mia; la radio clandestina.

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Estratto

Avrei dovuto nascere qualche anno dopo, non il 15 maggio 1937, così avrei vissuto in altre condizioni e facendo meno sacrifici.
Quello che mi conforta è di aver conosciuto mio nonno Attilio.
Nacque il 3 ottobre 1875, e morì l'11 ottobre del 1951.
Era un uomo socievole e di buona compagnia.
Attilio non amava molto parlare della sua infanzia, ma qualche volta é capitato sentirlo raccontare a mia madre e altre persone amiche che, in tenera età, venne abbandonato e lasciato in un collegio di Siena.
Raccontava che a tre anni venne preso in affidamento da Arturo Polvani, una famiglia di contadini di Foiano della
Chiana e lì vi rimase per qualche anno, finché il collegio lo riprese, perché il padre adottivo lo picchiava (Attilio era un bambino sveglio e come tutte le persone sveglie, faceva dannare). Diceva che un infermiere (non si sa bene di dove) lo fece prendere da una famiglia del Casentino, Arezzo. Lì accompagnava i ciuchi caricati “a basto” per andare al mercato del paese o dal mugnaio a far farina (allora tra la campagna e il paese non c’erano tante vie praticabili e l’unico mezzo di trasporto che potesse passare per quei luoghi era il compagno del contadino: il ciuco.)
Un giorno, quando aveva già 12 anni, arrivato al mercato col mulo gli capitò di incontrare il suo primo padre adottivo e riconoscendolo volle tornare con forza con lui, benché in passato questi avesse usato comportamenti scorretti nei suoi riguardi.
Non ho mai saputo i motivi della sua adozione: parlo di “motivi” perché il mondo contadino è stato sempre governato dalle leggi dell’utile (anche il cane e il gatto avevano un lavoro da svolgere) e queste leggi erano “regolate” per lo più dai Patti Agrari.
Chi non aveva in famiglia un figlio maschio, secondo questi Patti, non possedeva i requisiti per condurre il podere a loro assegnato.
Era necessario che in famiglia ci fosse un maschio e chi non ne aveva era bene che se lo procurasse con un’adozione.
In età matura, Attilio si sposò con Maria Gallorini e da lei ebbe due figli, Igino e Pia. Il primo, mio padre, si sposò con Lisena Barluzzi ed ebbero quattro figli: due maschi e due femmine.

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