Le anime di Francesco e il marinaio Hanba’aln – Gianluca Palomba 

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Il romanzo è ambientato nel XVII secolo, nella Cagliari capitale dell’ispanico Regno di Sardegna. I
personaggi sono spiriti inquieti, cavalieri ed ecclesiastici spregiudicati e caratterizzati da forti
contraddizioni. In nome di uno sconfinato libero arbitrio, tre di essi, l’ Arcivescovo di Cagliari
Francesco Desquivel, il Canonico Francesco Martis e lo scaltro nobiluomo Pablo Castelvì, la fanno da
padroni sia nella vita religiosa che pubblica. La cornice della vicenda è un’imponente festa barocca,
organizzata da Desquivel nel 1618, per celebrare il ritrovamento delle salme di martiri cristiani
dell’antica Karales e per aƯermare il potere spirituale e temporale della Chiesa in piena Controriforma.
I programmi del Vescovo, che vanno di pari passo con quelli più torbidi di Pablo Castelvì e della sua
famiglia, vengono però sconvolti da un umile frate che vede nel passato e nel futuro. Questi guida il
ritrovamento dei santi con visite nell’oltretomba, riesumando in questo modo storie di pagani e di
cristiani dei primi secoli. Gravemente malato, racconta a Desquivel, Martis e Pablo Castelvì, delle
traversie di un marinaio Fenicio, Hanba’aln, che dopo aver sognato San Paolo, si converte al
cristianesimo, partecipa ai primi Concili della Chiesa e tra fede e abiure, conosce un amore fuori
dall’ordinario. I tre protagonisti, influenzati in modo diverso da quelle rivelazioni, tra guerre con la
Francia ed arcani, troveranno, chi nel bene e chi nel male, ciascuno la propria strada.

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Estratto

Erano in tre. Tre in mezzo alla folla in giubilo, anime senza pace che con le labbra pregavano
disperatamente Dio e con il resto del corpo tradivano la fede professata. Uno era vescovo e osservava la
processione scorrere tra canti e paramenti, sognando con sguardo tremulo glorie in modo assurdo terrene.
Il secondo apparteneva a un illustre casato ed era il procuratore del re. Stava per raggiungere il suo cavallo
e unirsi agli altri pii festanti con mostrine, ma visto il rotondo fondo schiena di una damigella, ne
approfittò per agguantare al volo quel dono divino. La terza anima era uno schivo canonico, servile
braccio destro dell’alto prelato e in quel momento recitava con fervore un pater noster. I tre uomini
avevano qualcosa in sé che li rendeva diversi da coloro che gli stavano accanto. Tra tutti gli incoerenti e i
fedifraghi, essi recavano in sé qualcosa di sublime, che li portava a peccare, con determinazione e genio,
per la causa del cielo o del regno. Erano dotati di estro e concretezza, doni divini di cui si avvalevano
senza alcuna remora. Essi, forse, erano stati scelti per rendere testimonianza delle migliori qualità dello
spirito:
“Io ti do raziocinio, tempra e arbitrio. Non sarai animale in gabbia, ma uccello libero di volare. Nessuno,
più di te avrà la possibilità di scegliere tra il bene e il male.”
Quel 26 Novembre del 1618, Cagliari festeggiava in modo sfarzoso il ritrovamento dei corpi di alcuni
martiri dell’antichità, il popolo era in giubilo, le vie addobbate come si s'addiceva a una città che sarebbe
dovuta diventare capitale del sacro. L’arcivescovo di Cagliari, Francisco Desquivel, artefice dell’imponente
celebrazione, chiedeva a un dio insignificante e terreno, di sostenere la diocesi di Cagliari in una sacra
contesa con Sassari per il primato in Sardegna. E per la gloria della sua Chiesa e come viatico per i fedeli,
esponeva in pompa magna le spoglie ritrovate, pochi chilogrammi di fosfati e calcio, odorosi della
raccapricciante chimica che trasforma la vita in umile terra, ma sicuri salvacondotti verso il paradiso. La
storia ufficiale ha narrato della vanagloria dei contendenti calaritani, ma ha taciuto molte altre cose. Chissà,
forse io potrei rivelare ciò che non è mai stato scritto. Io che ho sostanza per aver conosciuto storie
timorose, storie di un pudore verginale e quasi autistiche, quelle che in un dimenticato punto di una
trascurata terra, rimangono chiuse in uno sguardo, in un impegno, in un amore anomalo che rasenta
l’assurdità. Io, che forse le posso ricollegare tutte, poiché ho i doni di mio padre, che morì colmo ancora
dell’emozione della nascita. Ogni ricordo si susseguiva in lui in un fluire senza tempo, d’immagini e
sonorità, a volte benevole, a volte mostruose. Bene, io credo che quella che è stata considerata una triste
condizione patologica, fosse anche vita autentica, storia pulsante del suo vissuto. Mi sforzerò, dunque, di
riportarmi alla condizione del mio genitore e di raccontarvi alcune sconosciute vicende, lontane nel tempo,
che in modo significativo hanno unito vite, grandezze e miserie umane. La storia, infatti, come somma
ordinata di frammenti d’esperienza, è solo un devastante Moloch che divora le emozioni più profonde.

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