Un passetto alla volta – Beatrice Nalesso

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A volte ci sono dolori troppo grandi che non si riescono a spiegare a parole e allora il corpo e il rapporto con il cibo diventano il mezzo con la quale si esprime tale sofferenza. Mente che soffre, corpo che paga…
I disturbi alimentari sono distruttivi e mortali, ma da essi si può guarire, si può stare meglio… però per riuscirci bisogna lasciarsi aiutare, bisogna fidarsi e bisogna lottare.
Questo libro ha tutto il mio cuore e tutto il mio impegno; spero che, come scriverlo ha aiutato me, leggerlo possa aiutare qualcun altro.

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Estratto

ANNEGARE
Se devo essere onesta, non so quando tutto è cominciato, non so precisamente il perché e non sono neanche sicura di sapere bene le cause, so solo, che un giorno, ho aperto gli occhi e non ero più io. Beatrice, quella bambina sempre sorridente, con due diamanti al posto degli occhi, con un cuore talmente grande da mettere sempre la felicità altrui davanti alla propria, ma allo stesso tempo con lo spazio sufficiente per amare se stessa, quella bambina che emanava luce, ora si era spenta, era scomparsa, era svanita.
Nessuno se ne era accorto, io non me ne ero accorta, vivevo la mia vita, ignorando l’oceano in cui stavo annegando: i miei polmoni si stavano riempiendo di acqua e l’ossigeno stava, piano piano, terminando; l’acqua gelida in cui ero immersa mi stava attraversando la pelle e mi stava ghiacciando il cuore; il sole che prima mi scaldava, ora era coperto da nuvole che diventavano sempre più scure e grosse. Una tempesta stava per abbattersi sopra la mia testa, e io ero in mare aperto, nessun riparo, nessuna nave si intravedeva nell’orizzonte, non c’era nessuno o, meglio, io non vedevo nessuno, e così stavo affogando, stavo annegando, stavo morendo.
Poi, però, ho trovato un salvagente e mi ci sono aggrappata con tutte le forze che avevo, con le poche forze che mi erano rimaste, quindi, ho chiuso gli occhi, me lo sono infilata e mi sono lasciata andare, mi sono lasciata trasportare dalla corrente, non ho provato a nuotare o a chiedere aiuto, mi sono fidata e affidata a quel pezzo di gomma che mi si era materializzato sotto gli occhi e ho permesso a lui di decidere dove portarmi.
Questo pezzo di gomma, questo salvagente, che io pensavo mi avesse salvato la vita, in realtà, mi ha intrappolata, mi ha incastrata, mi ha ingannata e il suo nome è disturbo del comportamento alimentare.
Io volevo solo perdere un po’ di peso, volevo vedermi bene, volevo sentirmi bene, mi ripetevo: “quando sarò magra sarò felice”, “la mia vita sarà perfetta se perderò peso” e con queste parole che mi rimbombavano nella testa è iniziato il mio inferno, nascosto dietro a quello che pensavo essere il paradiso.
Ho iniziato, così, con i digiuni: più digiunavo, più avevo voglia di digiunare, di sentire la mia pancia vuota, di sentire quei brontolii allo stomaco; più passava il tempo, più questi periodi di stomaco vuoto si prolungavano, più tempo passava dall’ultimo pasto, più un senso di illusorio benessere si impossessava della mia mente.
L’idea che con l’autofagia il mio corpo si “divorava” da dentro mi faceva sentire potente, forte e mi sembrava essere l’unica soluzione ad ogni mio problema.
Le urla del mio corpo, sotto forma di borborigmi, tentavano di avvisarmi dell’errore che stavo commettendo, ma io facevo finta di non ascoltarli, anche quando, in realtà, erano diventati l’unica cosa, che riuscivo ancora a sentire.
L’apice della mia gioia ci fu, poi, quando iniziai a percepire dei bruciori allo stomaco dopo tante ore di digiuno, questo fuoco che sentivo dentro di me, mi dava un senso di inspiegabile serenità; ed è proprio questo incendio dentro di me che ha iniziato a bruciare il grasso e il muscolo del mio corpo e ciò lo potevo vedere con l’aiuto della bilancia, che dal bagno avevo spostato in camera mia, per averla più vicina a me,
perché era diventata la mia migliore amica, più appoggiavo i miei piedi sopra di essa, più quel legame di amicizia si andava a rafforzare.
Io mi fidavo di lei, infatti, le ho dato il potere di definire il mio valore e più piccoli erano quei quattro numeri, più lei mi faceva sentire giusta e, di conseguenza, io mi sentivo più giusta.
Quella lastra di vetro, che usavo per definirmi, su cui salivo, molto lentamente e delicatamente, un piede alla volta, con una pausa in mezzo in cui prendevo un bel respiro, perché in realtà dietro quel mio amore nei suoi confronti c’era, anche timore, tanto timore.
La bilancia, al tocco risultava ghiacciata e ogni volta che ci salivo il mio cuore si fermava per qualche secondo, si congelava momentaneamente.
Quando quel numero era più basso del numero comparso su di essa la volta precedente, allora il ghiaccio si scioglieva e il mio cuore poteva tornare a battere e, perciò, in questi casi, tale strumento, con quei numeri, mi abbracciava e mi accarezzava; queste sensazioni erano ciò di cui mi nutrivo, di cui il mio corpo si nutriva, di cui la mia mente si nutriva.
Le volte, invece, che quel numero che compariva su di essa non andava bene, quella cazzo di bilancia mi faceva più male di uno schiaffo in faccia e il mio cuore rimaneva ghiacciato, immobile, un dolore inspiegabile e invisibile, ma talmente grande da schiacciarmi e divorarmi da dentro.

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