Estratto |
La stanza era avvolta nel silenzio, interrotto solo dal ticchettio dell’orologio sul
muro. Era una di quelle sere in cui il tempo sembrava rallentare, quasi fermarsi, come
se il mondo intero trattenesse il fiato. Lei era lì, al centro della stanza, le mani che
stringevano nervosamente la corda, il respiro spezzato in un ritmo irregolare.
La corda era nuova, comprata quella mattina. Aveva passato ore a cercare di
convincersi che fosse solo un pensiero passeggero, uno dei tanti momenti in cui il buio
dentro di lei sembrava più forte della luce. Ma quella volta era diverso. Non era un
impulso, ma una decisione. Calma. Fredda.
Aveva trascorso la giornata come un automa, sbrigando piccoli gesti con precisione
che non le apparteneva. Aveva rifatto il letto, sistemato i libri sulla scrivania, riposto
la tazza della colazione nel lavandino. Come se mettere ordine fuori potesse dare un
senso a quel caos che le bruciava dentro. Come se il mondo, dopo la sua assenza,
dovesse rimanere intatto, perfetto.
Aveva lasciato una lettera sul comodino. Non era lunga, poche righe scarne che non
riuscivano a contenere tutto ciò che avrebbe voluto dire. Si era scusata con i suoi
genitori, con gli amici, con chiunque avesse cercato di starle accanto senza mai riuscire
a oltrepassare il muro che aveva costruito intorno a sé. Non era colpa loro, aveva scritto.
Era solo troppo stanca.
Con le mani tremanti aveva annodato la corda alla trave centrale della stanza.
L’aveva testata con cura, come se fosse un gesto tecnico, privo di emozione. Ma dento
di lei, un vortice. Ogni nodo era un pensiero: le risate che non avrebbe più fatto, gli
abbracci che non avrebbe più dato, i giorni che non sarebbero mai arrivati. E poi,
inevitabilmente, il volto di lui.
Pensava a lui, al modo in cui tutto era iniziato. Lui era stato come una luce in un
tunnel buio, una promessa di calore che sembrava non finire mai. Quando l’aveva
incontrato per la prima volta nella sua vita, aveva sentito di essere vista, di essere
importante. Lui non la guardava solo con gli occhi, ma con qualcosa di più profondo.
Nei primi giorni insieme, si era sentita invincibile, come se nulla potesse toccarla, come
se il mondo fosse finalmente a suo favore.
Eppure, quella felicità aveva sempre avuto un prezzo. Lui era un enigma, un’altalena
tra presenza e assenza, dolcezza e distacco. Ogni momento passato insieme era una
promessa di eternità, ma ogni volta che si allontanava, lasciava un vuoto che lei non sapeva come colmare. La sua assenza era un’ombra pesante, che si infilava nei suoi
pensieri e li avvelenava.
Si era innamorata di lui, nonostante tutto. Forse proprio per quel tutto: il suo essere
complesso, sfuggente, mai pienamente suo. Lui era un paradosso. Un’ancora e una
tempesta, la ragione del suo sorriso e della sua disperazione. Non era perfetto, ma per
lei era tutto ciò che contava. Lo aveva amato con ogni parte di sé, consumandosi per
cercare di riempire i suoi vuoti, di essere abbastanza per trattenerlo.
Ricordava i giorni in cui lui spariva senza spiegazioni, lasciandola ad attendere, a
torturarsi con domande che non avevano risposta. Ricordava le sue scuse, quando
tornava, con quel sorriso che sembrava cancellare ogni ferita. “Non volevo ferirti”,
diceva. “Sono fatto così”. E lei ogni volta, lo perdonava, lo accoglieva di nuovo,
sperando che quella fosse la volta buona che le cose potessero cambiare.
Ma non cambiavano mai. E quel ciclo infinito l’aveva distrutta. Non era solo il dolore
di perderlo e riaverlo, ma il senso di colpa di non essere mai abbastanza. Ogni litigio,
ogni silenzio, ogni addio temporaneo sembrava dirle che c’era qualcosa di sbagliato in
lei, che non meritava il tipo di amore che desiderava.
Quella sera, il suo volto era tutto ciò che riusciva a vedere. I suoi occhi, che l’avevano
fatta innamorare. Le sue mani, che l’avevano accarezzata come se fosse preziosa.
Eppure, quei ricordi non erano più dolci. Erano un peso, un’ombra che la soffocava.
L’amore che aveva provato per lui non era mai stato abbastanza per salvarla. Non era
stato abbastanza neppure salvarli.
Alzandosi dal letto, si avvicinò alla trave centrale della stanza. Le mani tremavano
mentre sistemava la corda. Ogni nudo era un pensiero, un addio. Alla sua famiglia, che
aveva cercato di aiutarla senza mai capire davvero il vuoto che portava dentro. Ai pochi
amici che si erano allontanati, incapaci di penetrare il muro che aveva eretto. E a lui.
Soprattutto a lui. La persona che aveva amato più di ogni altra cosa e che, al tempo
stesso l’aveva fatta sentire così sola.
Si arrampicò sulla sedia, fissando la stanza un’ultima volta. Il letto rifatto, il bicchiere
d’acqua sul comodino. La lettera piegata con cura. Ogni dettaglio era al suo posto,
come se volesse lasciare un’immagine di sé che non corrispondeva alla verità. Perché
la verità era caos, dolore, un grido che nessuna aveva mai sentito, parlandole d’amore.
E così si attorcigliava, come dei capelli, nei pensieri neri e funesti. Chiuse gli occhi.
Inspirò.
Spinse via la sedia.
L’impatto fu immediato. La corda si tese con uno strattone violento, strappandole
l’aria dai polmoni. Per un istante, il corpo reagì, cercando istintivamente di lottare, di
aggrapparsi alla vita. Ma era troppo tardi. La mente si fece leggera, distante, mentre il
mondo intorno a lei si dissolveva.
E poi, ci fu silenzio. Un silenzio che sembrava eterno, finché una voce non lo spezzò.
“Ci sei ancora”.
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