Estratto |
I ricordi nei quali ti rifugi e cerchi compagnia sono particolari momenti di una giornata. Ti assalgono quando guidi o quando prendi un caffè al bar o saluti una persona o quando leggi un articolo del giornale o quando cominci a pensare alla tua vita od alla vita di chi sta attorno. E più passano gli anni più i ricordi si affacciano vivi e nitidi. Mia nonna Maria, da parte di madre, la rivedo minuta e fragile mentre, vestita perennemente di nero e con il grembiule bianco, prepara il pranzo già dal primo mattino mentre noi, seduti al tavolo, facciamo colazione prima di andare a scuola. Il babbo è già al lavoro, al telegrafo delle Poste Centrali in piazza Cavour; mamma controlla le cartelle, accartoccia lo spuntino della ricreazione e prepara la bici con la quale ci porterà a scuola, io seduto dietro e mia sorella più grande sul manubrio. Poi nel ricordo di quel lontano mattino rivivo gli anni di una vita così incredibilmente diversa dagli anni di oggi. Vivevamo con il nonno Renato, la nonna Maria e la zia Laura nel capanno a San Giuliano mare, soprannominata Barafonda, perché ad ogni pioggia torrenziale tutta la zona si allagava. Noi venivamo da Cervia da generazioni di salinai e le saline si tramandavano di padre in figlio. Babbo Augusto aveva studiato e prima della guerra vinse un concorso alle poste dove fu assunto, al telegrafo, in quel di Ravenna. E come telegrafista, in artiglieria, si fece quasi dieci anni di guerra; sempre prigioniero, prima degli inglesi in Africa, poi dei tedeschi in Ungheria ed infine con l’avanzata dei russi in Siberia. Gli inglesi fecero una amnistia nei riguardi di chi, pur soldato, era impiegato nella logistica e non aveva mai sparato; arrivò al porto di Alessandria d’Egitto insieme ad altri commilitoni quando la nave era già partita; quella nave fu affondata dai tedeschi, nessun superstite. Con la successiva arrivò a casa, si sposò, andò a Perugia con mamma in viaggio di nozze dove, dopo qualche giorno, gli recapitarono un telegramma con “ partenza immediata per il fronte”. Abbracciò e salutò tutti i familiari ed arrivò al fronte. I tedeschi lo presero in consegna insieme a tanti altri e li trasferirono sul Balaton dove, poco tempo dopo arrivarono i russi che li trasferirono in Siberia. Quando si stancò dei soprusi, delle umiliazioni e del brodo di bucce di patate della domenica, fuggì con altri due detenuti. E dopo un anno di fuga un giorno se lo videro arrivare a casa; pesava 47 chili e svenne quando la zia Fernanda, sua sorella, gli fece bere uno zabaione per rifocillarlo. Ma fu gran festa in famiglia e l’unica a non essere felice era Silva, mia sorella che non lo aveva mai visto, concepita nel 43 durante la licenza di matrimonio e nata nel 44 che gli diceva “ vai via brutto soldato il mio babbo è Tonino (lo zio) io non ti conosco”. Poi lo conobbe e divenne il suo babbo. Il diario della sua guerra riposa nel Museo dei Diari di Guerra di Pieve Santo Stefano. IL babbo si riprese velocemente e tornò a fare il telegrafista. Quando nonno Francesco gli chiese cosa fare della salina perché non ce la faceva più ed andava in pensione lui gli rispose che la poteva passare provvisoriamente ai cugini e che ci avrebbe pensato. Dalle poste di Ravenna arrivò una promozione con trasferimento alle poste di Rimini e fu così che io nato da poco, nel lontano 10 gennaio del 1947, divenni riminese a tutti gli effetti, ma cervese sempre nel cuore. Il babbo disse a nonno Francesco di cedere la salina ai cugini e verso la fine dell’anno ci trasferimmo dai nonni riminesi, nel capanno appunto, in attesa della casa in costruzione in fondo a Via Lanza, una traversa di Via Tripoli che, anni dopo, chiamarono Via Caldesi. Furono gli anni dei giochi, del vino fatto in casa e pigiato coi piedi, della pesca con una barchetta a vela che il babbo e tre colleghi comprarono per uscite in mare il sabato pomeriggio o la domenica, della scuola dalle Suore di Maria Bambina che mi massacrarono perché, da vero mancino, fui costretto ad imparare a scrivere con la destra, di indottrinamento religioso molto pressante perché in famiglia erano tutti cattolici, di astinenza per ogni venerdì e di messa e preghiere per ogni domenica o festa comandata. Il capanno era grande e noi dormivamo li in due stanze separate ed in una terza stanza c’era un po’ di tutto, olive comprese. Si perché fin da piccolo le olive nere che la nonna faceva in grandi vasi di vetro, con spicchi di aglio, finocchio selvatico e bucce di arance e limone erano buonissime. Le olive si preparavano nelle prime settimane di novembre e venivano pronte per le feste di Natale. I vasi di vetro andavano capovolti quasi giornalmente e tenuti in un posto freddo. La stanza dove c’era un po’ di tutto era perfetta ed io non aspettavo mai Natale per mangiare le olive. La nonna diceva che non si spiegava del perchè le olive diminuissero fino a quando, un giorno, mi beccò con le mani nelle olive ed il mistero fu risolto con una romanzina ed una risata. Oggi dopo più di settanta anni le olive le faccio ancora nello stesso modo e le regalo a mia figlia ed agli amici più cari.
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