Marozia – Lidiano Balocchi

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In Marozia parliamo del fascino femminile e della fatica per ottenere potere nel X secolo, nel Medioevo, da parte delle donne.

Figura di fascino e potere è Marozia dei Teofilatti. Vive tra l’892 e il 936, vita breve, ma intensa. Figlia di due senatori di Roma, Teodora e Teofilatto, originari di Ravenna allora capitale dei Bizantini in Italia. I genitori, venuti a Roma alle dipendenze del papa, fondano un patrimonio e un potere che arriva a controllare i massimi vertici nello Stato della Chiesa, il papato stesso. La loro prima figlia Mariuccia, storpiato in Marozia, a 15 anni diviene amante del papa Sergio III, amico di famiglia. È un’amicizia che… la lascia incinta. Nasce Giovanni. La giovane però per legittimare la morale di famiglia deve sposare Alberico di Spoleto e di Camerino. Da questo matrimonio nasce Alberico. Il marito però vuole vendicare l’onorabilità della moglie e uccide papa Sergio. Si ritrova così in lotta contro il papato: qui rimarrà ucciso. Marozia ora può iniziare la scalata al potere: diviene senatrice di Roma, e sposa Guido di Provenza, re d’Italia. Anche questi muore in una partita di caccia. Dunque ha il potere su Roma, sul papato.

Dopo l’elezione al soglio di Pietro di alcuni papi compiacenti, Marozia sceglie Papa suo figlio Giovanni, ventenne e inesperto di cose di chiesa. Ancora vedova, vuole di più: mira a sposare Ugo di Provenza, Imperatore del Sacro Romano Impero. Purtroppo è fratellastro di Guido. La Chiesa vieta il matrimonio tra cognati, è sacrilegio. Marozia e Ugo, cognati, tramite il figlio papa ottengono la dispensa e si sposano in S.Pietro. Il figlio legittimo Alberico, diciottenne, che odia il patrigno, durante il pranzo di nozze a Castel Sant’Angelo viene messo alla berlina da Ugo. Alberico lascia il pranzo e gli invitati, raduna tutti i giovani romani che prendono d’assalto la fortezza del papa. Ugo fugge calandosi dalle mura con i lenzuoli annodati: mai più supererà le mura di Roma, nemmeno con la forza del suo esercito. Alberico II prende il potere su Roma, vi fonda un governo civile e imprigiona in due monasteri diversi suo fratello papa e sua madre. I due moriranno lentamente nell’anonimato e nel più assoluto silenzio. Nemmeno le commoventi lettere scritte dalla madre al figlio Patricius Romanorum non coglieranno alcun effetto.

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Estratto

Nata in un tugurio, la bambina, brutta e malnutrita, cresce bistrattata e malvista da tutti. Dai familiari innanzitutto. Ognuno la vuole comandare, educare, darle lavoro. Deve produrre per sé, per i parenti, per i vicini. Ma non è docile. Anzi ostica, a volte cattiva. Un carattere ribelle che in pochi riescono a contenere.
Le cadono addosso gli anni della pubertà, senza che nessuno l’abbia preparata, spiegandole la vita. Dei signori maliziosi se ne accorgono e chi le dona abiti sgargianti, chi sandali e scarpe con mille nastri e lustrini, chi falsi gioielli, chi creme e rossetti, chi uno specchio…
Qualcuno ora si accorge che è bella, che ha tante potenzialità e pure un carattere dolce come non aveva mai espresso durante la miseria: senza resistenza, permette a molti di allungare le mani. Coi più libidinosi è libidinosa. Con gli altri, semplicemente incantevole. Con poco in cambio lascia inzuppare le mani anche ai più lascivi. E’ un’acquasantiera, o meglio, è la Chiesa stessa all’alba del suo millesimo compleanno…

Quel giorno al levar del nuovo sole primaverile i greggi e i pastori dormicchiavano ancora dentro gli antri che avevano ricavato sotto le volte dell’Anfiteatro Flavio. Certo che appena quella luce dorata e scura tagliava l’ombra tra le lesene e le crepe disturbava la pigrizia degli uomini e delle bestie. Al disturbo queste avevano iniziato a zuccarsi, poi qualche belo degli agnelli avvisava che era l’ora del pascolo. L’uomo si scartocciò dal suo mantello di lana lezzo – aveva dormito come bestia tra le bestie -, pisciò addosso al bastione più vicino, poi con due imprecazioni e bestemmie urlate alle pecore ordinò che era ora d’uscire.
Le bestie capivano quel linguaggio rozzo e arcaico. Uscirono all’aperto per dirigersi sul Palatino. L’erba tra i muri franati, tra i ruderi e la calce friabile era ricca e rigogliosa. A ogni bocccone le pecore ne strappavano uno zaffo. Ed erano svelte e veloci a riempiersi la pancia. Adesso gli agnelli sapevano che era già pronta per loro la colazione, le mamme manco si fermavano al tiro dei figli sotto le loro mammelle. Il pastore trovò un punto d’appoggio sedendosi su due stipiti franati in croce, il cane bastardo s’accucciò ai piedi del padrone e si godeva quei raggi che appena inclinati scaldavano in pieno l’uomo e il fedele amico.
Gli ovini docili non avevano foga d’allontanarsi, perché sapevano che era vicina l’ora della mungitura: ricavavano un gran piacere dalla mano del padrone che alleggeriva le loro riserve.
Erba sul Palatino, erba sul Celio, erba sul Colle intorno alla Basilica di Roma, al Battistero, alla casa dei papi, ai palazzi del potere.
A quei tempi l’erba era l’unica ricchezza per una miseria sovrabbondante.

Il regno dei papi nel IX secolo era stabile e florido. Aveva rispetto e donazioni dai regni e principati confinanti, dall’Impero Romano d’Oriente, oramai consolidato, anche se logoro nella sua gerarchia. Il successore di Pietro aveva fissato la sua sede a Roma, gloriosa e antica capitale di un passato Impero ancor più ricco di fama e meriti. Il papato, caduto questo Impero e disgregata ogni traccia del suo dominio, l’aveva sostituito quale autorità morale e di governo, occupandone di fatto alcune cariche e alcuni luoghi. Da Roma intese diramare la sua dottrina cristiana, i suoi canoni e le sue disposizioni. Dell’Impero Romano occupava e manteneva palazzi e monumenti, ne creava dei nuovi. Riciclava vecchi luoghi di culto e ne creava dei nuovi.
Nel quartiere dei Laterani, nei terreni confiscati a personaggi politicamente nemici, Costantino Imperatore aveva costruito una Basilica dedicata a San Giovanni Battista per il culto della nuova religione cristiana: l'aveva sostenuto nella presa del potere. Cedette poi l’edificio con l’intero quartiere agli usi della Chiesa e del suo vescovo. Ai giorni dei conti di Tuscolo, discendenti di Teofilatto, la Basilica madre era di gran lunga ingrandita in edifici e cortili per uso abitativo e di direzione per gli addetti al governo ecclesiastico.
Inoltre nei Campi Laterani ora esistevano il Battistero, il Patriarchio, il Sancta Sanctorum con la riposizione della Scala Santa del Pretorio di Ponzio Pilato recuperata da Sant’Elena, i palazzi dedicati a sede amministrativa dello Stato e dell’Urbe, monumenti come quello equestre dedicato a Marco Aurelio-Costantino, insulae per private abitazioni. Il Patriarchio in particolare era un grande edificio, dall’architettura importante, su tre piani separato dalla Basilica, che conteneva gli appartamenti del pontefice, gli uffici di lavoro suoi e dei collaboratori, aule di riunione e di consiglio, la loggia delle benedizioni, la schola cantorum con le sue stanze, il grande studio per i ragazzi, il cortile per la ricreazione degli stessi. Poi univano palazzi ed insulae le strade, le piazze e i giardini. Non vi erano alberi tra gli spazi vuoti, ma piccole piante che non davano frutti, germogliavano pochi fiori e tanto verde.
Alla schola, che occupava tutto il piano terra dell’edificio, vi erano iscritti un centinaio di studenti divisi per età e grado di istruzione. Vi era una direzione responsabile, un gruppo docente, formato per lo più da persone consacrate al servizio religioso. Vi era un ‘decano’, un giovane prossimo alla conclusione del corso di studi, che curava la disciplina dei compagni di studio, che fungeva da congiunzione tra gli studenti, i docenti e la direzione.

<<Che Giove ti strafulmini!>> imprecò ad alta voce, tra sé, Marco nel maneggiare uno scalpello su una tavola piallata e ben levigata. Gli era andato male un colpo.
<<Ahi, ahi, Marco! Non si bestemmia… Nemmeno gli dei pagani, se vuoi che sia più preciso. Che t’è successo? Dillo a me.>> Si intromise inaspettato il reverendo Firmino, rettore della schola, che sentì l’imprecazione, mentre stava entrando nella bottega.
<<Oh, perdonatemi, reverendo rettore, ma sapete,‘sti ferri non sempre fanno quello che si comanda con il martello…>>
Marco era un artigiano che operava nelle vicinanze del Laterano. Lì aveva una botteguccia, una casetta, un orto. A buon prezzo era pure un lavoratore rifinito. Per questo Firmino si avvaleva spesso della sua abilità, gli faceva riparare o rifare mobili, suppellettili, infissi del suo istituto.
<<Abbiamo le finestre della schola che guardano a meridione da rivederle tutte. Entra acqua e vento. Le altre… Peggio! Le devi vedere tu, poi ci dici quel che si può fare, quelle da sostituire o da ritoppare. Quando ti aspetto?>>
<<Vedete, Firmino, ho qualche ordine in sospeso… Vanna ha partorito da poco… Vedrò quanto prima, per voi…>> Poi Marco in tono confidenziale, ma con qualche esitazione continuò:
<<Molto reverendo, abbiamo quel ragazzo, un bravissimo ragazzo, Gesualdo, che conoscete, che è pronto per l’istruzione superiore. È intelligente, a modo per le cose di chiesa, perché non ve lo prendete nella vostra schola? Farebbe strada con voi, facendovi buona riuscita, con bei risultati…>>
<<Senti, Marco, conosco il ragazzo. Sono certo della sua propensione alle cose di studio, ma i posti sono limitati nel mio collegio; devo sentire i superiori. Forse vagliando i suoi risultati…; forse lo vorranno esaminare. Vedremo… Non vi prometto molto, ma una preferenza per te e per la tua famiglia non mancherà. Riguardaci quelle finestre…>>
Il reverendo s’impegnò verso Marco e il desiderio della sua famiglia. Come Marco del resto, nel portare a termine gli impegni di lavoro che gli vennero ordinati.
Gesualdo era un bel ragazzo. Alto, ben formato, a tredici anni era ormai inserito nella schola cantorum, dove procedeva con profitto negli studi di grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, musica. La sua famiglia non di rango lo aveva raccomandato al prelato direttore della scuola per i servigi che il padre prestava alla curia del Laterano.
Marco, durante i suoi interventi, spesso aggiungeva doni e frutti dal modesto possesso nella campagna romana. Cose che andavano oltre i lavoretti e le manutenzioni artigianali richiesti e erano sempre destinati alla gerarchia. La curia su Gesualdo aveva fatto l’eccezione, ma il giovane non tradiva le aspettative.

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