1 Introduzione
“Hanba’aln e le anime di Francesco” è un romanzo storico-fantastico. La narrazione
inizia nel XVII secolo, nella Cagliari capitale dell’ispanico Regno di Sardegna e prosegue
con una rievocazione di vicende risalenti ai primi secoli dell’era cristiana. Ogni
avvenimento è ancorato a un filo conduttore e condivide con gli altri gli elementi
strutturali del romanzo. I personaggi sono tutti spiriti inquieti e tormentati; alcuni sono
uomini della vita pubblica, cavalieri ed ecclesiastici molto spregiudicati. Il romanzo è
anche “storia” del sentimento religioso, in quanto “recupera”, nel loro valore essenziale,
alcuni culti pagani, nonché la vita autenticamente cristiana di comunità di credenti del
quarto secolo. Le caratteristiche psicologiche dei protagonisti sono tratteggiate
evidenziando i chiari ed oscuri presenti in ogni essere umano.
2 Struttura del romanzo e svolgimento delle vicende narrate
L’impostazione illustrata è presente fin dall’incipit dello scritto. Le prime venti righe
presentano un ritratto essenziale di alcuni protagonisti, tre liberi e spregiudicati interpreti
della vita religiosa e politica sarda del seicento: l’Arcivescovo di Cagliari Francesco
Desquivel, il Canonico di cattedrale Francesco Martis e lo scaltro Pablo Castelvì,
appartenente all’omonima nobile casata.
“Tra tutti gli incoerenti e i fedifraghi, essi recavano in sé qualcosa di sublime, che li portava a peccare,
con determinazione e genio, per la causa del cielo o del regno. Erano dotati di estro e concretezza, doni
divini di cui si avvalevano senza alcuna remora. Essi, forse, erano stati scelti per rendere testimonianza
delle migliori qualità dello spirito: Io ti do raziocinio, tempra e arbitrio. Non sarai animale in gabbia, ma
uccello libero di volare. Nessuno, più di te avrà la possibilità di scegliere tra il bene e il male.”
La cornice di tutta l’opera, tuttavia, è una festa barocca, organizzata dal Vescovo di
Cagliari, Francesco Desquivel, nel 1618, per celebrare il ritrovamento di alcune salme di
martiri cristiani dell’antica Karales.
Durante la festa, il canonico Francesco Martis, longa manus dell’Arcivescovo Desquivel,
prometterà la donazione di una lauta somma di denaro a Pablo Castelvì, Procuratore del
Re ed esponente di un nobile casato. Nei patti che i due uomini stringono, è previsto che
la somma servirà all’Arcivescovo Desquivel per proseguire scavi e ricerche di altre tombe
di santi. Castelvì, in contropartita, otterrà dalla Chiesa aiuto alla Corte del Regno di
Spagna per salvare dalla pena di morte suo fratello Salvador, accusato di uxoricidio.
I programmi dei “tre”, tuttavia, vengono sconvolti da un umile frate che vede nel passato
e nel futuro. Questi guida il ritrovamento dei santi Kalaritani con misteriose visite
nell’oltretomba, riesumando storie di pagani e di cristiani dei primi secoli. Infine,
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gravemente malato, racconta agli attoniti Desquivel, Martis e Pablo Castelvì, delle
traversie spirituali di un marinaio Fenicio, Hanba’aln, che dopo aver sognato San Paolo,
si converte al cristianesimo e inizia il suo percorso di fede colmo di timori e dubbi. Il
Fenicio, che prenderà il nome latino di Fabius, si innamorerà poi di Jezabel, una
prostituta dal corpo bellissimo e dal volto velato, che schiuderà per lui nuove dimensioni
della vita spirituale. Non prima, però, di aver assistito ad alcune vicende sconvolgenti che
lo indurranno a mettere più volte in discussione la sua nuova fede e in gioco le sue scelte
di vita.
“Una notte, la donna, ormai dimentica del suo lavoro e del suo guadagno, si addormentò tra le braccia
di Fabius. E mentre i pensieri del fenicio scivolavano via leggeri, cadeva, con un lieve sussulto della
testa, anche il velo di Jezabel. L’uomo vide finalmente il volto della donna e inorridì…
Fabius, senza dir niente, si rivestì in preda ad un forte turbamento. Se ne andò che Jezabel era ferma sul
suo giaciglio e rassegnata al suo destino di essere mutilo. Per metà era donna, per un’altra, inverosimile
umana. Era anche merce da piazza e agognata immagine ideale. L’uomo si allontanò senza darsi un
perché…
Passarono gli anni. Un giorno arrivò finalmente la risposta al fondamentale perché. Fabius aveva
conosciuto un uomo di nome Lucifero… Questi aveva fede in Gesù, conosceva il cuore degli uomini
come nessun altro ed era un seguace di Paolo… Lucifero era vescovo di Karales, città che, nel quarto
secolo, era un fiorente centro commerciale pullulante di fedi, preghiere e orientamenti religiosi diversi…
Fabius, rimasto sconvolto dalle eresie ariane e dalle impossibili teologie del Concilio di
Nicea, che invece di avvicinare allontanavano l’uomo da Dio, assiste alle coraggiose prese
di posizione, al Concilio di Milano, del vescovo Lucifero, la cui influenza sarà
determinante per la crescita della sua fede. Grazie alla vicinanza di Lucifero, infatti,
Fabius diverrà più fermo nelle sue convinzioni e inizierà un laborioso e profondo
riesame della propria vita che lo porterà a conclusioni sorprendenti.
“Fabius comprese, così, le ragioni della sua fuga da Jezabel. Egli aveva avuto orrore non del viso della
giovane, ma di ben altro. In quell’esistenza mutila, in quel contrasto tra viso sfigurato e corpo
incantevole, tra vita dissoluta e anima candida, egli aborriva la doppiezza che vedeva in sé e in ogni altro
essere umano. Pianse, quindi, al ricordo del pane spezzato in preghiera con gli altri fedeli e della
misericordia di Dio, che giungeva ad amare anche le nostre mostruosità.”
Fabius, tuttavia, senza Jezabel non sapeva che fare di sé e quando Lucifero venne esiliato,
riprese a vagabondare per il Mediterraneo e a coinvolgersi in dispute teologiche di
stampo ariano. Per caso, tuttavia, egli incontra nuovamente Lucifero ad Antiochia.
“Il vescovo di Antiochia, Melezio, era stato appena cacciato dall’imperatore Costanzo per via delle sue
simpatie per l’ortodossia e sostituito da Euzoio, ariano tra i più accesi. Il gruppo dei “nicenei” era diviso
tra intransigenti, guidati da Paolino e coloro che cercavano un compromesso con gli ariani, proprio
sotto Melezio. Accadde però che Lucifero, proprio ad Antiochia, ordinasse vescovo Paolino.”
Il vescovo motiva la scelta di nominare vescovo il “niceneo” intransigente Paolino, con
una “arringa” di stampo religioso arguta ed efficace, che colpisce molto Fabius.
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Come pensate di potervi conquistare il cielo, forse disquisendo delle dimensioni del naso del Padre e di quelle del Figlio,
oppure confrontando i colori dei loro occhi? Certo, le orecchie dell’uno e dell’altro sono simili e a sentir delle vostre inezie
esse si torceranno dal dispiacere. Padre e Figlio ci amano a dismisura. Sento però il loro sconquassante riso per le vostre
insulse disquisizioni, o fratelli. Al Padre brucia certamente lo stomaco e al Figlio prude la barba e starnutisce. Quel che
io dico è che la loro sostanza non è conoscibile con la ragione o i sensi, ma allo stesso tempo essa è nota…”
Il fenicio decide quindi di andare a trovare Lucifero alle porte di Antiochia. Si ritrova,
così, a pregare con lui, ospite di una comunità di cristiani che vive proprio come i primi
discepoli di Gesù, in semplicità e mestizia. Salutato Lucifero, quindi, riparte per Karales.
“…arrivato a Karales, si recò subito a casa di Jezabel. Giunto in prossimità del suo ombroso cortile, la
vide che annaffiava un fiore. Non era frutto d’immaginazione; ella era viva. La donna non aveva alcun
velo in volto e questo era armonioso e risplendente, senza ferite o cicatrici, di una bellezza paragonabile
al resto del suo corpo.”
Durante una sofferta interruzione del racconto, Frate Ortolano spiega che deve le sue
visioni ai santi di cui si erano di recente ritrovate le spoglie e che non conosce il motivo
per il quale essi avevano voluto narrargli quelle vicende. Invita, quindi, Desquivel, Martis
e Castelvì a cercare, essi stessi, la ragione.
Frate Ortolano, ormai stremato, vorrebbe concludere il racconto. Ma Pablo Castelvì, del
tutto incurante, gli chiede di poter conoscere il suo futuro e quello della sua famiglia.
Frate Ortolano esaudisce a fatica la richiesta. Riprende quindi a narrare e mentre parla, la
sua voce si trasforma fino a divenire esattamente come quella di Don Pablo.
Francesco Ortolano, narra, a questo punto, delle peripezie e delle efferatezze che
vivranno e compiranno Pablo e i componenti della famiglia Castelvì. Don Pablo,
racconta il frate, rafforzerà patrimonio e influenza all’interno della famiglia, ma lo farà,
con ipocrisia e raggiri, a danno di fratelli e parenti. E dopo averlo conquistato, diverrà
guida e protettore di tutto il casato. Grazie alle sue capacità militari, inoltre, riuscirà a
ottenere nuovi e importanti titoli ed onori.
Pablo Castelvì, infine morrà. Ma da morto, gli sarà dato di poter operare tra gli umani
come da vivo. In questo modo egli riuscirà, dall’aldilà, a gestire le faccende di famiglia
ancora per un po’.
Dal mondo dei defunti, però, Pablo trema, si dispera e si appassiona per le malefatte del
nipote Augustin, violento e brutale, che egli proteggerà in numerosi frangenti.
“Augustin impersonava tutte le mie passioni, anche quelle alle quali non avevo mai dato sfogo perché
inopportune per la mia vita di allora. Una tirannica disposizione che tutto quadrava e squadrava, mi
aveva indotto a seppellire alcune mie voglie sotto una vita raffinata ed elegante…
Egli era bello, ardente e sapiente nel soggiogare. Era una bestia, ma non stupido e forse anche per
questo egli aveva uno stuolo di donne ai suoi piedi. Un giorno, però, una malcapitata si permise di
rifiutarlo. Per Augustin, la conquista di quella grazia che si era negata, iniziò a diventare un’ossessione.
Più il tempo trascorreva, più il giovane vedeva il proprio prestigio vacillare. Al secondo rifiuto, egli fece
prigioniera l’insensata come fosse stata selvaggina e la prese. Augustin sapeva bene, però, che la donna
amoreggiava con due uomini della famiglia rivale. Il venerdì santo del 1651, mentre Augustin rincasava
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in prossimità della cattedrale, alcuni uomini capitanati da Blasco de Alagon gli spararono con furore e lo
ferirono… Tremai, nel veder cadere giù quello stupido.”
Augustin sopravvive all’attentato e con l’aiuto di Pablo, sempre ombra protettrice, mette
su un’armata e muove guerra alla famiglia nemica degli Alagon. Finisce poi dietro le
sbarre, ne esce fortunosamente e dopo aver ucciso un amico del suo avversario Blasco
de Alagon, ripara in Sicilia.
“Verso la fine 1652 giunse la peste e cambiò ogni prospettiva. Io non temevo più per la vita di Augustin. Mi
disperai, con stupore, per le sorti della mia gente. Il morbo non risparmiava nessuno, poveri e ricchi, vecchi e
giovani. M’impressionava il gemito delle anime e l’infinità di vite spezzate. Avevo nelle narici un continuo odore
di fuochi ardenti di cadaveri. Sentivo il morso della fame in chi, prostrato per la malattia, non riusciva più a
muoversi…”
Augustin torna poi in Sardegna, ma le sue malefatte non hanno termine. Fintanto che,
un giorno, viene ucciso.
“Il 20 giugno del 1668, don Agustín era sulla strada del ritorno a casa, più ubriaco del solito. Si udirono degli
spari. Non so quante pallottole gli entrarono in pancia. Non riuscivo neanche a piangere per il dolore. Mi
rimproverai d’esser colpevole della sua morte. La vita di Augustin era rimasta a lungo nelle mie mani e avrei
potuto salvarla. Il peggio è che il mio amore aveva contribuito a fargli perdere, oltre al respiro, anche l’anima.
Mai, prima di allora, avevo pensato alla sua anima. Augustin ne aveva una. Anch’io l’avevo. Altrimenti, come avrei
potuto dimorare nell’ombra? …”
Frate Ortolano, terminato il suo racconto, muore di fronte agli attoniti Desquivel, Martis
e don Paolo. Quest’ultimo, però, il giorno stesso riprende la sua vita depravata
esattamente come l’aveva lasciata. Pablo Castelvì, infatti, non aveva creduto alle verità
narrate da Frate Francesco. Il romanzo, a questo punto, riprende con un flash back che
approfondisce le caratteristiche psicologiche di Desquivel e di Frate Ortolano e
introduce due nuovi personaggi: Giovannino, un bimbo senza fissa dimora, vispo e
dolcissimo e Mallena, la sua mamma, una prostituta forse insana di mente, ma con un
grande cuore, alla quale il bambino era stato portato via in tenerissima età. Legati da
profondo affetto per Giovannino, Frate Francesco e il Vescovo Francesco se ne
contendono affetto e educazione. Il bimbo, però, muore in circostanze misteriose e
all’insaputa della madre. Durante la festa dedicata ai martiri, tra tornei e vesti variopinte
dei cavalieri, fa il suo ingresso Mallena, bella, malvestita e aggressiva, che accusa i potenti
di aver sfruttato il suo corpo e averle portato via il figlio. Poi maledice Dio, che lo
avrebbe permesso. Mallena viene quindi sottoposta a processo dal Tribunale
dell’Inquisizione, che le contesta d’esser stata sacrilega e le infligge una pesante condanna
detentiva. Mallena, però, replica con un’appassionata autodifesa.
Monsignor Francesco Desquivel le fa visita in carcere. Inaspettatamente, trova la donna
molto cambiata, lucida e serena, in un’aura di nobile fede. Nel confidente colloquio con
Mallena, il Vescovo ritrova se stesso, come uomo e cristiano.
“Furono la sua voce calma e calda, il suo parlare onesto e colmo di misurata passione, che mi trascinarono nel
limbo in cui trascorreva i suoi giorni. Provavo una profonda, indescrivibile serenità ed ebbi paura. Inizio adesso a
comprenderne il perché: forse perché Mallena appariva molto diversa da come l’avevo vista l’ultima volta, come
una nuova esistenza comparsa dal nulla; forse perché quel che provavo in quel momento, apparteneva a una
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dimensione spirituale molto diversa da quelle che avevo sperimentato fino ad allora. Iniziavo, infatti, a respirare
serenamente, senza affanno, senza alcun imperioso senso del dovere, senza fretta, senza alcuna meta da
raggiungere. Quando ne avevo necessità, prendevo fiato. Mi mostravo esattamente per quel che ero. M’accorsi
che lo sguardo di Mallena s’era col tempo addolcito. Vi si leggevano rassegnazione, distacco e improvvisi bagliori
di una gioia che destava stupore.
Il suo viso sguardo a tratti appariva assente e pur tuttavia, ogni suo discorso era estremamente lucido. Io la
seguivo nei suoi racconti, immedesimandomi. Il suo viso smagrito m’appariva più bello che mai. Io, uomo e
sacerdote, trovavo per la prima volta pace di fronte al gradevole volto di una donna, poiché il piacere che
provavo nell’ammirarlo non sminuiva la sincerità della mia fede e del mio impegno religioso…
In quell’occasione Desquivel, scopre che Giovannino è figlio di Mallena, alla quale, però,
è stato riferito che il piccolo è vivo, ma malato. E’ Mallena, invece, che versa in gravi
condizioni di salute e Desquivel, mosso a compassione, decide di raccontarle una pietosa
bugia. Le dice, infatti, che il bambino è vivo.
“Guardai sua madre con dolorose compassione e angoscia, sapendo che, come lei, avevo perso una volta il
bambino e che, assieme a lei, l’avrei perso di nuovo. In un battibaleno, scelsi la strada impervia del mio personale
amore, passionale, travolgente e altruista a modo mio, ma forse non retta, di fronte a Dio. Deliberai d’ingannare
Mallena nel modo più subdolo che la potenza di quell’amore potesse escogitare. Le dissi, non solo che il bimbo
era vivo, ma che glielo avrei fatto vedere…”
Nel 1624 Monsignor Desquivel fa nuovamente visita a Mallena. Le racconta che
Giovannino cresce sano e santo e poi, da una finestrella del carcere in cui la donna è
reclusa, le indica un bimbo accompagnato da una donna e le dice che quello è suo figlio.
“Desquivel le si sedette accanto su una seggiola cigolante e con delicatezza iniziò a percorrere con le
dita di una mano il muro che aveva di fianco, quasi dovesse scrivervi sopra. E come se lo stesse
scrivendo, venne fuori dalle sue labbra la piacevolissima trama di un racconto. La storia narrava di un
frate che vedeva il passato e leggeva il futuro, che coltivava le rose e seminava amore. Questo frate
aveva un figlio d’elezione, un fizzu d’anima, che era anche suo figlio nello stesso modo e questo prescelto
aveva una madre, la quale aveva trovato in lui un fratello, come il vescovo aveva in lei una sorella
d’elezione. Ora, questa grande famiglia, dopo essersi smarrita, era tornata nella grazia di Dio grazie a
Giovannino, che aveva ispirato amore in tutti i suoi componenti…
Mallena e Francesco sapevano che la propria fine era imminente, ma non ne parlarono. La loro
esistenza era in agonia da molto tempo ed entrambi aspettavano la morte. La loro carne stava per
cedere, ma finsero d’esser in salute. Mallena sperava che il proprio sacrificio potesse guarire
Giovannino. Il vescovo, stanco di cercare santi sotto la terra, faceva sua la disperazione della povera
disgraziata, mettendo nelle mani di questa la propria redenzione…
Mallena muore in carcere la notte stessa del suo incontro con Desquivel. Questi, invece,
scompare a Calari il 21 Dicembre 1624. Muore, però, lasciando incompiute le ricerche
dei martiri. I lavori di scavo vengono proseguiti dal suo Vicario, Francesco Martis, il
quale, su indicazione del suo Vescovo (e per le ragioni superiori del primato religioso
della propria diocesi) aveva falsificato, spacciandole come autentiche, numerose lapidi
funerarie ritrovate. Morto Desquivel, Martis spera che gli possano esser riconosciuti i
suoi meriti. Tuttavia, se le sue aspirazioni andranno deluse, la sua vita spirituale prenderà
una nuova e inaspettata piega. Nel 1637, mentre si trova a Oristano per una visita
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pastorale, incappa nelle sanguinose vicende dell’assedio francese contro la città. Assiste
così al saccheggio della cattedrale e ad uno stupro di alcune ragazze ad opera di soldati
francesi. Benché traumatizzato, egli s’impegna con i religiosi locali nel dare conforto ralla
popolazione e ai numerosi feriti. Ma mentre è all’interno di un confessionale per
adempiere ai suoi uffici, riceve la visita di due fedeli che mai avrebbe pensato
d’incontrare in quel momento. Entrambi gli uomini chiedono d’esser confessati. Uno è il
Conte D’Arcourt, comandante della spedizione francese; il secondo è il padre di una
delle ragazze violentate. Martis, che è un sacerdote assai spregiudicato, decide di
amministrare il sacramento della confessione in un modo singolare. Permette, infatti, che
le parole del padre di una delle ragazze violate, parole generose e misericordiose verso i
malfattori, vengano udite dal Conte D’Arcourt. Esse serviranno, infatti, per infliggere
una penitenza, un vero schiaffo morale, a D’Arcourt, colpevole di esser passato incurante
di fronte alla scena del delitto.
“Convinto delle straordinarie doti morali di quest’ultimo, Martis aveva deciso di scommettere su di lui
come strumento di redenzione per il primo. Martis non era nuovo a immorali e pericolosi azzardi. Egli,
infatti, aveva sempre vissuto il suo ministero con un sorprendente animo utilitaristico che combinava
un personale senso di giustizia con autentica misericordia. Escogitò quindi in un lampo che avrebbe
fatto giungere all’arrogante militare la confessione del paziente penitente come una sonante lezione…”
Il giorno dopo, una vincente controffensiva dei sardo-ispanici sconfigge i francesi. Ma i
vincitori, come i nemici, saccheggiano la cattedrale di Oristano. Nella tragica desolazione
successiva alla battaglia, Martis, tra i feriti, vede uno degli stupratori. E benché si fosse
ripromesso di assicurare alla giustizia i colpevoli del delitto, in uno slancio di misericordia
abbraccia il malfattore, macchiandosi con il suo sangue.
Il racconto, a questo punto, muta nuovamente scenario. La guerra e le sue tristi vicende
son lontane e Martis, nel mese di giugno di un imprecisato anno, si reca a Tharros per
visitare le rovine di quell’antica città. Qui, sulla spiaggia, vede un gruppo di persone
sedute in cerchio. Tra di esse un uomo, rivolgendosi a tutti gli altri, parla della croce di
Cristo e del suo amore, sollecitando con tenerezza i fratelli a evitare liti e a rimanere
uniti. Alcuni, poi, confessano pubblicamente i propri peccati. Successivamente, tutti
spezzano e consumano del pane. Martis si unisce alla piccola comunità, spezza e
consuma anche lui del pane.
“Dopo che l’uomo ebbe terminato, fu distribuito del pesce arrosto. Tutti ne mangiarono con gusto. Poi
fu distribuito del pane, ciascuno lo spezzò, ne diede un pezzo al suo vicino e tutti ne consumarono.
Infine, i membri della comunità e il suo ospite Francesco, si abbracciarono l’un l’altro e pregarono ad
alta voce. Francesco si sentì come svuotato da un macigno e avvertì come una freschezza giovanile
tornare in lui. Egli si sentiva nuovamente libero. Si decise allora ad esser un cristiano come quelli che gli
stavano attorno. Accettò il pane dalle mani sporche del suo vicino, ne mangiò con gioia e gusto e ne
porse un pezzo a un altro uomo. Questi gli sorrise e mangiò a sua volta il pane, chiudendo il cerchio.”
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