Estratto |
18 ottobre 1947, ore 6,30 del mattino circa.
Apro gli occhi al mondo. Nasco magro (1,8 kg) e cianotico
perché mia madre, che tredici mesi prima aveva partorito
mio fratello con il taglio cesareo, aveva osservato una dieta
rigida per evitare un secondo taglio, ma non ci fu niente da
fare: anch’io, e tre anni e mezzo dopo anche mia sorella, nascemmo
alla stessa maniera. Siamo nella seconda metà degli
Anni ‘40 e il taglio cesareo è un’operazione complicata e non
scevra di rischi. Comunque, sopravvivo e inizia il mio lento
cammino nel mondo.
Mio padre e mia madre si erano conosciuti dopo l’8 settembre
del 1943 quando, dopo l’armistizio, le truppe italiane
avevano lasciato la Corsica e si erano trasferite in Sardegna,
dove i miei genitori si conobbero e si innamorarono. Mio
padre, però, era già sposato. Nel 1931, infatti, aveva contratto
matrimonio religioso con una sua coetanea e compagna di
Liceo.
Al tempo, mio padre era già laureato. Era un rampollo della
famiglia Guerra, con un futuro sicuro e privo di problemi.
I problemi, invece, li aveva la moglie che non poteva avere
rapporti sessuali a causa di un imene turgido. Al giorno d’oggi,
la cosa si sarebbe sistemata con un piccolissimo intervento
chirurgico, ma, all’epoca, i problemi legati al sesso erano
una vergona da nascondere, i figli nascevano, e perché nascevano
tutti lo sapevano, ma nessuno ne parlava. Così, tutti
aspettavano l’erede al trono che, però, non poteva arrivare.
Nel 1935, mio padre si arruolò volontario per andare a
combattere in Abissinia, fuggendo da se stesso e dalla sua
realtà che non poteva rivelare a nessuno. Durante la Seconda
guerra mondiale fu ferito gravemente, ma sopravvisse.
Guarito dalle ferite, fu inviato nella Corsica occupata dagli
italiani e da lì, dopo l’8 settembre 1943, fu trasferito in Sardegna.
Per lui la guerra era finita. Fu così che conobbe mia
madre, originaria di Cagliari, città marittima, particolare che
influenzò tutta la mia vita futura.
A Lucca la mia era una famiglia importante, di antica
discendenza nobiliare. I miei nonni erano stati commercianti
di seta, poi proprietari terrieri, ma, quando nacqui io,
nell’immediato dopoguerra, tutto questo era solo un ricordo.
Alla mia nascita, il palazzo di famiglia era ancora tutto di
proprietà di mio padre ma in profonda decadenza e, parzialmente
affittato a prezzi irrisori, produceva ben poche risorse.
Mio padre, farmacista e proprietario di una farmacia
nel centro di Lucca, aveva contratto debiti per via di speculazioni
sbagliate, così affittò la farmacia e anche questa non
rendeva a sufficienza.
Di conseguenza, noi conducevamo una vita modesta. Un
tempo, però, eravamo una famiglia importante in città e,
quindi, bisognava mantenere la posizione, far credere agli altri
che non era cambiato niente. Così sono cresciuto dentro
una bolla, fuori dal mondo, isolato dalla realtà: non bisognava
confonderci con il popolo, noi eravamo superiori, appartenevamo
alla categoria dei “signori”. Per questo, noi fratelli frequentammo
una scuola privata, frequentata dalla crema della
società lucchese, malgrado non ce lo potessimo permettere.
I miei compagni di scuola erano ricchi, io no. Questa discrasia
tra ciò che eravamo e ciò che credevamo di essere
scompigliò il mio equilibrio e questo fu la causa, insieme ad
altre, che mi portò a tutti quegli scompensi che manifestai
in seguito.
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