Ab Urbe Condita – Myriam Ambrosini

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La campagna finisce il 31 Agosto 2025
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753 A.C. , 21 aprile ed una leggenda che ha scavalcato i secoli inizia con un fratricidio, un invidia tra fratelli, Romolo e Remo, quasi emuli dei loro lontani progenitori, Caino ed Abele.

Ed io – forse perché romana da generazioni – non ho voluto accettare quello squallido inizio e quel fratricidio ed ho voluto invece regalare a Roma un’altra nascita, un’altra leggenda.

Tanto nulla si sa di cosa realmente ci sia dietro la nascita di questa città, che, a sua volta, è divenuta leggenda e che, nel dipanarsi della sua storia, è poi divenuta “la città eterna”.

Lavorando dunque proprio sul filo della leggenda che, come si dice, ha forse sempre un fondamento di realtà, sono partita dalla storia della sacra vestale Rea Silvia e mi sono poi voluta togliere la soddisfazione di far fondare proprio da lei, e cioè da “una donna” – coraggiosa, indomita, sacerdotessa e praticante anche di antichi misteri – la mia ROMA!

Risalendo poi da un termine etrusco “ Rumòn” (città sul fiume) – nel romanzo il figlio di Rea Silvia – ho regalato la più probabile etimologia al nome che è stato dato alla città eterna.

Tra i protagonisti di questo romanzo figurano anche il poeta latino Virgilio e l’imperatore Ottaviano Augusto.

Tanti gli accadimenti che si succedono in questo libro, ma, tra quelli di maggiore spessore, le epiche battaglie tra i Latini e gli Etruschi per il territorio e la determinazione della nascita di Roma, alla foce del sacro fiume Tevere.

 

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Estratto

lungo il fiume, quel fiume che le parlava … C’era qualcosa d’indefinibile in quell’acqua del colore dell’ambra, un magma sepolto che pareva chiedesse soltanto di poter salire in superficie.
Ogni giorno, per brevi momenti, si allontanava dal Santuario, uscendo dalla porticina secondaria nascosta da fitti rampicanti. I fedeli non lo sapevano – ed era meglio che fosse così -, ma anche le sacre Vestali potevano permettersi quella breve fuga e trasgressione, purché rimanessero nelle immediate vicinanze del tempio.
Di quel piccolo spazio, loro riservato, che costeggiava il sacro fiume, molte non ne approfittavano, ma lei aveva invece bisogno di quei momenti in cui respirava l’aria pura della campagna e, soprattutto, amava poter fissare dentro quelle acque antiche ed immaginarvi tutti i destini che avevano accompagnato e quelli che si aspettava si compissero: con sgomento si accorse però che, in quel momento, qualcuno stava fissando lei …
Rea Silvia aveva sedici anni e possedeva una bellezza radiosa quanto singolare, di cui lei non era però minimamente conscia poiché, come sacra vestale, nessuno sguardo d’uomo era mai caduto su di lei, ed il primo che fu costretta a leggere non le piacque affatto.
Era tozzo, con le membra sgraziate e vestiva soltanto una sorta di sudicia tunica, l’uomo che osservava avido quegli occhi chiari della fanciulla che, come laghi di montagna, illuminavano un volto minuto dagli zigomi insolitamente alti. Lunghi e folti capelli corvini oscillavano lucenti intorno alle sue spalle.
L’uomo che, sgomentandola, continuava a fissarla, era probabilmente uno dei tanti fuoriusciti di passaggio, in fuga da qualche pesante condanna che non voleva scontare e, guardando la bellissima giovane che si era improvvisamente trovato di fronte, aveva per un attimo pensato potesse trattarsi di una dea, ma la paura che lesse nei suoi occhi lo convinse presto del contrario, ed il lungo digiuno di donne in cui si trovava allontanarono da lui ogni eventuale scrupolo.
La sorpresa di trovarsi uno sconosciuto di fronte ed il rendersi dolorosamente conto di essersi allontanata troppo dal recinto di sicurezza, non le permisero di abbozzare alcun tipo di resistenza e Rea Silvia si trovò ben presto bloccata al suolo da quelle braccia sgraziate ma forti come macigni ed il lezzo che la raggiunse la fece quasi svenire, e forse per lei sarebbe stato molto meglio così.
Faceva male ma, in un certo qual senso, quel dolore fisico l’aveva protetta dal
Resto … Il resto che non sarebbe stata in grado di sopportare.
D’istinto si era concentrata su dettagli insignificanti: il colore che un giorno doveva aver avuto quella lercia tunica, i pori dilatati della pelle di lui da cui, acuminata come fili di ferro, spuntava quella barba ruvida e poi … il dolore … così sordo, così invasivo che l’aveva salvata, almeno per il momento, dall’orrore che andava crescendo negli spazi della sua mente e che mai, negli anni a venire, ne era certa, avrebbe trovato angoli abbastanza capienti entro cui rifugiarsi.
E poi l’attesa di un bambino …
I “gemelli”…? Sì, in realtà erano veramente due, ma lei non lo sapeva, non l’aveva mai saputo. Quando aveva chiesto ad Isoe – la sua compagna più affezionata con cui la notte divideva il cubiculum – di uccidere il bambino “appena fosse uscito da lei”, non avrebbe mai immaginato che si potesse verificare invece “una seconda uscita”e la sorpresa allora era stata tale che non aveva avuto il coraggio di far sopprimere anche il secondo bambino: l’avrebbe affidato al fiume …
<Rumòn …> aveva sussurrato ancora stremata dal parto <Rumòn …> e non intendeva il nome da dare al bambino ma, nel suo dialetto etrusco, voleva invece riferirsi al “fiume”, quel fiume che percepiva amico e detentore di segreti, di cui un giorno anche lei, ne era certa, avrebbe fatto parte.
<Signora … Io ed Isoe l’abbiamo trovato lungo il fiume … Scivolava tranquillo sulla corrente e sorrideva, o almeno così ci è parso. Una leggera brezza si è levata proprio allora e la cesta si è accostata all’argine dove noi ci trovavamo. Abbiamo pensato che fosse un segno ed allora l’abbiamo preso e … portato qui!>
Rea Silvia ed Isoe erano a capo chino dinanzi alla più anziana delle sacerdotesse, la “Virgo Magna”, di fatto a capo delle Vestali.
Aysia le osservava interdetta: era certa che le nascondessero qualcosa, ma non sapeva cosa … Rea Silvia infatti era molto pallida ed aveva profonde occhiaie su quel suo viso di porcellana.
Fece allora scivolare il suo sguardo lungo il corpo della fanciulla: era snello e perfetto come sempre, ma i seni parevano possedere una rotondità ed una pesantezza che prima non avevano. Un vago sospetto attraversò la sua mente, ma lo scacciò immediatamente: non v’era stato nessun segnale che facesse pensare ad una gravidanza della fanciulla e Rea Silvia, inoltre, era la sua discepola preferita. Intelligente ed intuitiva, non aveva sino ad allora dato alcun problema, se non una vaga tendenza a ritagliarsi una sorta di suo spazio personale che avrebbe potuto far pensare ad una sua inconscia ricerca d’indipendenza, ma tutto era sempre avvenuto entro confini più che accettabili.
Quella libertà mentale, se controllata e giustamente indirizzata, poteva in futuro rivelarsi anche utile, poiché – quando lei non sarebbe più stata in grado di farlo – aveva pensato, come a sua sostituta, proprio a Rea Silvia.
<Vedremo in qual modo potremo sistemarlo …> disse finalmente Aysia, allentando la tensione che si era andata sempre più accumulando nelle due fanciulle.
<Non ritenete dunque di doverlo sopprimere …?> chiese con un filo di voce Rea Silvia, sforzandosi di guardare la sacerdotessa negli occhi.
Aysia per alcuni secondi rimase in silenzio, osservando con una strana intensità la fanciulla, chiaramente a disagio, che aveva di fronte <No …> le rispose poi continuando a tenere incatenati i suoi occhi in quelli di lei <C’è qualche motivo per cui dovrei essere indotta a farlo?>
<No … no> balbettò spaventata Rea Silvia <è che immaginavo … Non sapevo insomma come ci si dovesse comportare in questi casi. Tutto qui!>
La fanciulla rabbrividì: sapeva quanto azzardata e pericolosa fosse quella decisione improvvisa che aveva preso di riportare il neonato al tempio ed infatti Aysia aveva sicuramente intuito qualcosa, ma non sapeva spiegarsi come mai, conoscendone la proverbiale severità, non aveva voluto approfondire più di tanto l’argomento. Le stava comunque lanciando un monito – ne era certa – e lei non l’avrebbe certamente sottovalutato.
Il giardino del collegio degli Auguri era abbastanza grande e vi si affacciavano tutte le celle dei sacerdoti.
Vulcus vi correva animatamente, inseguendo una lucertola di un insolito verde acceso, facendo ondeggiare i lunghi capelli nerissimi. Il bambino – che aveva già cinque anni – possedeva dei lineamenti singolari, persino lievemente irregolari, ma proprio quell’irregolarità gli conferiva un aspetto piacevole e, soprattutto, poco banale. Nella carnagione un po’ ambrata che, doveva essere stata del padre, spiccavano due occhi obliqui che, mescolando il colore di entrambi i genitori, avevano il colore dell’oro brunito.
Gli Auguri, a cui la Virgo Magna, a capo delle Vestali, l’aveva affidato, stravedevano per quel bambino astuto e un po’ “ruffiano” che sapeva sempre farsi perdonare tutto, persino dall’arcigno Lupus, loro capo riconosciuto. Il nome “Vulcus” che avevano deciso di affibbiargli era stato infatti scelto proprio dal primo augure, ma tutti, bonariamente, continuavano a chiamarlo con il soprannome di “Rumòn”, poiché Aysia aveva loro spiegato come “il fiume” l’avesse portato e consegnato alle due giovani vestali e come le fanciulle, non avendo voluto attribuirsi l’impegno di dargli un nome, nominando il bimbo non facevano altro che identificarlo con il fiume che, più e meglio del grembo materno che l’aveva partorito, l’aveva, miracolosamente, sorretto e salvato.
Rumòn pareva aver conservato nella sua indole le calme sonnolente e gl’impeti improvvisi di quel corso d’acqua da cui era venuto e che, ragionavano quegli uomini d’esperienza, era lì da sempre, anticipando e scrutando dunque l’esistenza di ognuno di loro.
L’arrivo di quel bimbo non aveva turbato le rigide ritualità di quella congrega di religiosi/indovini, ma la sua schietta innocenza e l’ indiscussa vitalità avevano trasmesso in ognuno di quegli uomini, sicuri di loro stessi e boriosi detentori del
mistero, una scintilla di leggerezza e di levità che, a volte, riusciva a regalare a quei visi di pietra l’ombra rasserenante di un raro sorriso.
Quel giorno Vulcus/Rumòn era particolarmente irrequieto poiché proprio quel giorno, un’ora prima del tramonto, insieme ai suoi padri putativi, si sarebbe recato al tempio delle Vestali per celebrare la Festa di primavera: conservava vaghi ricordi della cerimonia dell’anno precedente, ma anche quei pochi erano assai piacevoli, tanto da fargli grandemente desiderare di poterli rivivere.
Gli Auguri ed i Sacerdoti non potevano vedere né entrare in contatto con le Vestali, limitandosi a salmodiare nella stanza accanto dove ardeva il sacro fuoco, ma lui, come bambino e dunque “innocente”, – così richiedeva il rito propiziatorio – aveva invece il compito di consegnare alla Virgo magna la fiaccola del nuovo anno che, augurale, avrebbe alimentato quella fiamma divina sino all’avvento di un’altra primavera.
“Poi le Sacerdotesse avrebbero danzato” ricordò “e la magia avrebbe riempito la grande sala …”
Rea Silvia si stava diligentemente preparando per l’importante cerimonia che si sarebbe svolta al tramonto, ma la sua mente era diretta soltanto alla previsione di poter rivedere suo figlio: Rumòn, come dentro di sé aveva sempre continuato a chiamarlo, riempiva molti dei suoi pensieri e quelle rare volte che aveva la possibilità d’incontrarsi con lui avevano la capacità di trasmetterle una segreta eccitazione, anche se, contemporaneamente, la colmavano di nuove ansie.
Sapeva che era stata fatta la scelta giusta quando Aysia e “le Anziane” avevano preso la decisione di affidare il bambino agli Auguri ma, ciò nonostante, continuava a vivere tutte le apprensioni e le paure di una madre.
“In ogni caso”, si andava spesso ripetendo per farsi coraggio, “almeno due volte all’anno ho l’occasione di poterlo vedere: so come cresce, quale aspetto, con il trascorrere del tempo, viene ad assumere … riesco persino a cogliere briciole del suo carattere e guardandolo negli occhi riesco forse a scorgere le avvisaglie del suo futuro.”
Quando pensava a suo figlio Rea Silvia non lo collegava mai a quell’uomo sgradevole e brutale che era il padre: le due figure si delineavano totalmente distaccate, come se aver tenuto Rumòn per nove mesi dentro di lei l’avessero emancipato da quella paternità, restituendolo completamente a lei ed ai sogni che per quel bimbo nutriva. Se la mente le tornava qualche volta su quel greto del fiume dove aveva subito violenza, si percepiva come un’estranea ed a lei – a quell’estranea – restituiva le penose sensazioni e l’umiliazione che avevano vissuto la sua carne ed il suo spirito.
Intanto, anche ripercorrendo quei pensieri, nel prepararsi a quel rito imminente, prestava la massima cura alla sua persona: voleva che suo figlio – “l’unico uomo” a cui era concesso vedere il suo volto – la vedesse bella e ne cogliesse anche, con quei suoi delicati sensi infantili, la grazia e, forse, anche l’amore che per lui nutriva. Vulcus, infatti, non sapeva che lei era sua madre, nessuno – neppure gli Auguri e con la sola eccezione di Isoe – lo sapeva, ma lei covava la speranza che quel loro sangue
uguale gridasse da una parte e dall’altra e che, nonostante tutto, riuscissero a riconoscersi
L’enorme sala ellissoidale era circondata lungo il suo perimetro da una doppia fila di colonne di marmo purissimo, mentre tutta la parte centrale, al fine di poterne accogliere al centro l’enorme braciere – dove ardeva il perenne fuoco appannaggio della dea Vesta – rimaneva completamente sgombra.
Solo il prezioso pavimento, allargandosi a raggiera con un disegno a sprazzi luminosi rossi ed ocra, accompagnava ed esaltava quel simbolo sacro, terminando poi in un prezioso mosaico, di un porpora acceso, sopra cui ardeva il sacro fuoco.
Le sacerdotesse – coperte di lunghe tuniche bianche, bordate anch’esse di porpora e che lasciavano scoperte le spalle e le braccia – lo circondavano come in un simbolico abbraccio. Un velo trasparente, adagiato sui capelli, scendeva sino a lambire loro le caviglie, lasciando però scorgere la fronte ed il viso. Soltanto la capo sacerdotessa ed alcune anziane avevano il viso parzialmente celato, sia a motivo del loro rango, legato alla più lunga permanenza in quel luogo, e forse anche perché non vi si potessero scorgere i segni del tempo.
Comunque, per quanto almeno si sapeva, nessuna sacerdotessa permaneva in quel sacro tempio sino alla piena vecchiezza: come e quando, a suo tempo, venissero destituite o sostituite e dove fossero poi indirizzate a nessuno – tranne coloro che erano introdotti a quei misteri – era dato conoscerlo.
I Misteri di Vesta rimanevano, appunto, misteri …
Vulcus-Rumòn avanzava solennemente, per quanto almeno lo permetteva la sua giovane età, facendo molta attenzione a tenere ben dritta e sollevata l’ingombrante torcia che appariva quasi grande quanto lui: l’espressione del suo volto era compunta e concentrata, anche se tradiva lo sforzo visibile che quel peso insolito doveva costargli.
A sua volta, così come avveniva per le Vestali, era stato abbigliato con una lunga tunica bianca mentre, intorno alla fronte, sul nero intenso dei lunghi capelli, spiccava una sottile fascia color porpora.
Titubante si avvicinò all’alta sacerdotessa che l’aspettava con il volto celato dal velo – il mistero di quel viso sconosciuto gl’incuteva sempre un arcano timore – e le porse, sollevato per essersi liberato dall’ingombrante peso, ma anche dispiaciuto per aver già assolto al suo incarico, la pesante fiaccola fiammeggiante.
Un lungo grido di giubilo uscì allora, contemporaneamente, da tutte quelle bocche femminili e, subito dopo, Rumòn, a capo chino, poté cogliere il leggero fruscio che tutti quei corpi producevano, mentre, all’unisono, s’inginocchiavano: soltanto allora la Virgo magna avvicinò la torcia accesa all’immenso braciere, unendo tra di loro le due sacre fiamme.
Il silenzio, per qualche attimo, fu così totale che Vulcus riuscì persino a percepire il lungo salmodiare degli Auguri che attendevano nella sala attigua: “Adesso … adesso
viene il momento” pensò emozionato “Tra breve le sacerdotesse inizieranno a danzare e le farfalle magiche invaderanno la stanza!”
D’improvviso si udì un suono dolce e ritmato e Rumòn, incuriosito, si chiese da dove provenisse, poiché lì non era apparentemente visibile alcun strumento musicale … Eppure qualcuno pizzicava armoniosamente le corde di qualche ineffabile strumento ed il suono, come se, come una pioggia benefica, scendesse dall’alta volta, si diffondeva poi per tutta la sala.
Rumòn alzò la testa appena in tempo per scorgere le Vestali che, sempre con impareggiabile sincronia, si sollevavano dal pavimento, dove se ne erano rimaste sino ad allora, inginocchiate e, tutte insieme, prendevano a danzare.
Dapprima eseguirono movimenti lenti ed aggraziati, ma, man mano che si donavano al ritmo, i loro corpi flessuosi presero ad eseguire archi, elevazioni e volteggi sempre più rapidi e complessi che, a volte, facevano aderire al loro corpo le bianche tuniche altre, invece, le sollevavano lievemente, lasciando scorgere qualche tratto di pelle: un sensuale balugìnio madreperlaceo che ipnotizzava Rumòn, lasciandogli le guance in fiamme.
Come poco prima era avvenuto per la musica, anche le farfalle iniziarono repentinamente a scendere dal soffitto, finché una si adagiò sui suoi capelli.
Vulcus/Rumòn si affrettò a raccoglierla e poté così rendersi conto che ciò che, nella sua fantasia di bimbo – l’anno precedente aveva avuto soltanto quattro anni! – era divenuta una farfalla, in realtà era soltanto il petalo di un fiore … e migliaia di bianchi petali profumati continuarono infatti a cadere tutt’intorno a lui e su di lui …
Rea Silvia, nascostamente, guardava di continuo suo figlio, ne studiava i singolari tratti del volto, s’incantava nel perdersi in quell’oro bruciato dei suoi occhi.
“Com’è bello!” si ripeteva “Forse un pochino mi somiglia … comunque, anche se così non fosse, è bello di suo e l’espressione che riesco a scorgere sul suo volto è quella di un bambino intelligente e curioso.”
Il ritmo della danza, intanto, era andato ancor più aumentando e, ad un tratto – ad eccezione delle sacerdotesse anziane e della Virgo magna – le vestali lasciarono cadere tutte insieme il velo che avevano sui capelli i quali, finalmente, poterono ondeggiare liberi e fluenti intorno ai loro volti accesi dalla danza e, di lì a poco, riempirsi della candida pioggia di petali che seguitava a cadere dal soffitto.
Rumòn seguitava a guardarle ipnotizzato: tutti quei neri, quegli “oro” e persino qualche guizzo di rosso – che, volteggiando nell’aria, nascondevano o scoprivano bellissimi volti di donna – gli toglievano il fiato e, per un attimo, gli parve di vivere in un sogno, ed allora chiuse gli occhi … Quando li riaprì due occhi verdi ed intensi, come il fiume a cui, gli avevano spiegato, doveva il suo soprannome, lo fissavano intensamente … Quegli occhi smeraldini, notò, appartenevano a quella che lui giudicò una bellissima fanciulla, forse la più bella … e, d’istinto, le sorrise.
In risposta a quel suo ingenuo sorriso, gli parve allora che la fanciulla fosse stata scossa come da un leggero brivido – perdendo anche, per una frazione di secondo, il ritmo preciso della danza – e, poi, con sua grande meraviglia, rispose al suo sorriso, e così facendo mise in mostra una chiostra di denti bianchi e perfetti come perle. Il
cuore parve fermargli in petto e Rumòn continuò a tenere i suoi occhi legati a quelli di lei e non si avvide che – nessuno di loro due, nella bolla in cui per quei brevi momenti si erano rinchiusi, se ne rese conto – altri occhi vigili, da dietro il velo che li celava, avevano colto quella strana intimità … quella sorta d’arcana intesa che si era venuta creando tra il bimbo e la fanciulla.
Quando la musica, all’unisono con la pioggia di petali, cessò, le Vestali si fermarono contemporaneamente per poi, nell’improvviso silenzio intervenuto, sfiorando quasi il pavimento, come se fossero fatta d’aria, lasciare ad una ad una la sala.
Rumòn avvertì allora come una strana desolazione … un senso di abbandono che non aveva mai provato sino ad allora: la complice penombra del corridoio nascose invece alle sue compagne le lacrime che rigavano il volto di Rea Silvia.
La neve scendeva abbondante dal cielo, raccogliendosi, fragile e misteriosa, ai piedi degli alberi che circondavano il tempio.
Rea Silvia osservava assorta quel fenomeno piuttosto insolito per il clima di quella zona: un grumo altrettanto gelato si raccoglieva silenzioso nel suo cuore. Presto, molto presto non avrebbe più potuto vedere suo figlio …
All’arrivo della prossima primavera sarebbe stato possibile vederlo ancora una
volta … osservarne i cambiamenti – così rapidi nei bambini! – ed immergere i suoi occhi in quelli dolcemente ambrati di lui, trasmettendogli così, come poteva, il suo affetto: ma sarebbe stata l’ultima volta …
Rumòn, il suo fiume dorato, come lei lo chiamava e che, al pari del vero eterno fiume, da sempre amava, avrebbe compiuto otto anni … il limite massimo perché un bimbo potesse essere utilizzato per le cerimonie sacre … il limite massimo per la piena del suo amore.
Cosa avrebbe fatto allora? Non riusciva, per quanto si sforzasse, a guardare più lontano: quel bimbo – soltanto ora se ne accorgeva – era il suo vero scopo di vita.
Tutti gli anni passati nel tempio come sacra vestale le parevano ormai divenuti ripetitivi, persino insignificanti. Mai, sino ad allora, aveva voluto spiare così intimamente dentro se stessa, al fine di non essere costretta a confessarsi che non credeva sino in fondo a quel culto a cui era stata destinata e, forse – ma nell’affermare ciò sentiva il coraggio venirle meno -, non aveva mai attribuito una reale consistenza a nessuno di quegli ineffabili Dei a cui tutti si affidavano … sempre così lontani, così ostilmente assurdi!
Seguendo un impulso improvviso sollevò allora il catino di rame che le serviva per le abluzioni quotidiane e prese ad osservarsi: la forma vaga ed un po’ incerta che riuscì a scorgervi era comunque assai attraente ed il verde cristallino dei suoi occhi strappava lampi persino a quel materiale opaco, mentre le forme sinuose del suo corpo, ricordandole che aveva soltanto poco più di venti anni – l’età più piena e significativa per una donna, lo intuiva chiaramente anche chiusa in quel bozzolo fuori della realtà che era la vita al tempio -, le riportavano intatta tutta la sua femminilità.
D’improvviso si sentì prigioniera, bloccata in uno schema che qualcuno aveva un giorno scelto per lei … straniera a quei misteri che, ormai, soltanto meccanicamente
Rea Silvia guardò ancora una volta fuori della finestra e si accorse che la neve aveva coperto ogni cosa, accrescendo in lei quel senso di estraneità: si percepì infatti come spersa in un mondo divenuto sconosciuto o che, comunque, lei non riusciva più a riconoscere.
Alzò poi gli occhi verso quell’immenso lago bianco che era divenuto il cielo e desiderò potersi disperdere in lui, divenirne silenziosa parte.
<Rea Silvia … cosa succede?> Aysia, i severi occhi indagatori fissi su di lei, l’aveva convocata ed ora voleva … pretendeva da lei una risposta, una plausibile spiegazione.
Non riuscì a dire nulla e chinò la testa , chiudendo anche inconsciamente gli occhi come per chiudersi in un suo bozzolo protettivo.
<Ti ho osservata, mia cara, non ho potuto fare a meno di osservarti … > aggiunse infatti Aysia e la sua voce profonda riuscì ad attraversare la fragile cortina delle sue palpebre chiuse e, finalmente, giunse sino a lei <Cosa rappresenta per te quel bambino?>
La domanda più temuta aveva preso improvvisamente corpo …
Rea Silvia se ne rimase ancora in silenzio, affidandosi a quell’estrema difesa per non rischiare di mettere troppo a nudo la propria anima.
<Qualcosa di te, ogni volta che quel bimbo è presente alle cerimonie, pare come scindersi dal tuo corpo e proseguire per suo conto ….> seguitò a dire Aysia, mettendo però da parte il tono piatto che aveva usato sino ad allora ed adottandone invece uno stranamente materno <Persino i movimenti della tua danza, in sua presenza, perdono di fluidità e divengono, invece, forzati, quasi innaturali … Ho persino notato che, più di una volta, hai rischiato persino di perdere il ritmo e la sincronia con le tue compagne. Quando guardi quel bimbo – e lo guardi spesso! – è una luce nuova quella che si accende nel tuo sguardo … E quello sguardo l’ho poi ritrovato identico e parimenti appassionato anche negli occhi di Rumòn.>
Solo il silenzio parve raccogliere le parole dell’anziana sacerdotessa, ma, in realtà,
Rea Silvia, man mano che le parole la raggiungevano, andava sempre più accorgendosi di quanto Aysia – in passato sua granitica ed inflessibile maestra – fosse invece riuscita a leggere così profondamente nel suo animo e, come un timido germoglio sotto la neve, una lieve speranza iniziò a farsi strada dentro di lei: quell’empatia che Aysia le stava dimostrando non poteva che essere interpretata come un segno di affetto … una tenerezza insospettata che la sacerdotessa doveva nutrire per lei.
Solo allora, nel veder fiorire e crescere quella sua segreta speranza, Rea Silvia si lasciò finalmente andare ad un pianto sommesso, permettendo che fossero le lacrime a parlare per lei …
Le ombre della sera già si arrampicavano lungo i muri e mutavano in uno livido violetto le luci accecanti del giorno quando le due donne si separarono.
<Vedremo …> sussurrò Aysia, con le rughe del volto divenute improvvisamente più marcate <Vedremo cosa si potrà fare … Ma ora vai, Rea Silvia, si è fatto tardi e tu devi andarti a cambiare per la veglia notturna e tutte le volte che sei preposta alla
protezione del sacro fuoco,> e la voce della Virgo magna si sforzò di ritrovare il tono brusco di sempre < fai in modo – e bada che questo è un ordine! – di concentrarti esclusivamente sulla tua delicata mansione e di non lasciare invece vagare altrove il tuo il pensiero … soprattutto dove poi assolutamente non dovresti: la Dea ti vede ed i suoi occhi vanno oltre … molto oltre la tua sola realtà corporale.>
Mentre Rea Silvia, dopo essersi doverosamente inchinata dinanzi alla Virgo magna, si allontanava dalla stanza, Aysia ne studiò con affetto l’esile schiena e l’aggraziato incedere: “Lo sapevo … Credo di averlo sempre saputo!” disse a se stessa quando, infine, vide la fanciulla scomparire oltre la soglia “Ma non la lascerò sola … Se la Dea realmente vede non potrà condannarmi. Lei che protegge il focolare domestico, proprio attraverso la donna, come può non comprendere, non perdonare …” Ma, altrettanto bene, sapeva che stava – che stavano – rischiando la vita: la sorte destinata a chi di loro infrangeva i voti di verginità era orribile. Ricordava ancora con orrore quando, da giovane, aveva visto una sua compagna gettata in pasto alle murene. Le urla erano continuate per un tempo che le era parso infinito ed i pietosi brandelli che aveva visto poi affiorare dall’acqua non li avrebbe più dimenticati. Nonostante ciò voleva tentare, sfidare la sorte … superare quelle regole a cui, tutte loro, erano costrette ad ubbidire.
“Sarò cauta” si disse, sorridendo tra sé “Molto cauta … Quante volte poi” si confidò, forte della sua esperienza “quelle regole, in realtà, erano state trasgredite, e non sempre quella trasgressione era stata portatrice di un male anzi, a volte, proprio l’esatto contrario.”
Sperava, pregava anzi – anche se chiamare in causa gli Dei in quel particolare frangente le apparisse tutt’altro che appropriato – che anche quella volta, per lei e per Rea Silvia, avrebbe potuto accadere altrettanto.
C A P. III
…………………………………..
La luna, al suo colmo, veleggiava straniera agli uomini, ma non a lei che adorava quell’astro notturno in cui non ravvisava una dea, ma bensì l’incarnazione visibile dell’eterno mistero: una eterea, opalescente personificazione di tutto ciò che di misterioso ci circonda … lontana, ma sempre presente, indecifrabile, ma reale. Spiegare la luna – si diceva – era come voler spiegare il segreto stesso dell’universo. A differenza del sole – anche se Signore e Dominatore del Creato – la luna abitava infatti la notte … gli oscuri silenzi dove ogni cosa diviene ancora più sfuggente, indecifrabile, enigmatica e … pericolosa!
Rea Silvia, osservando rapita l’astro, non si era resa conto di essersi addormentata ed allora la voce che, d’improvviso, le giunse dall’acqua le parve la sua stessa voce ed a lei somigliante parve l’ evanescente creatura che prese ad emergere, scintillante e remota, dal fiume.
<Ciò che qui dentro dorme ti aspetta da tanto …> sentì che mormorava la voce che poi era anche la sua < il fiume è il tuo destino e quello di Rumòn – a ciò designato dal suo stesso nome -, unitamente a quello di tanta gente che, con lacrime e sangue, forgerà un destino di gloria … un destino eterno!>
La luna aveva percorso un lungo tratto nel cielo quando Rea Silvia si svegliò, ma lei sapeva che le parole che, con la sua voce e le sue sembianze, la creatura di vento e di acqua le aveva sussurrato, non appartenevano soltanto al sogno, ma ad una tangibile realtà che gettava già la sua ombra sul futuro……………….
CAP VIII
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<Non è bellissimo!> gli sussurrò allora Rea Silvia, accaldata in viso e per questo ancora più seducente, strofinandosi poi a lui come una leonessa in calore.
<Uhm …> borbottò l’uomo irretito sia dalle seduzioni di lei che dallo spettacolo meraviglioso che lì realmente offriva la natura <Un vero luogo di delizie …> asserì poi, lasciandosi accarezzare da Rea Silvia che ne osservava intanto avidamente ogni espressione.
<Come mai mi hai portato qui?> chiese poi, intuendo, forse, le trame nascoste della donna.
<Perché qui dovrebbe sorgere la tua città …!> esclamò lei, alzandosi sulla punta dei piedi e distribuendogli piccoli baci lungo tutto il volto.
<La mia città dici …> sottolineò allora Mamàrce, stando al gioco e tentando intanto, ludicamente, di sottrarsi alle irresistibili effusioni di cui era fatto oggetto <E quale aspetto dovrebbe avere, secondo te, questa città?>
Rea Silvia ridivenne seria, poiché le spiegazioni che intendeva fornirgli dovevano essere chiare e precise, eludendo facili entusiasmi ed impossibili chimere.
<Mamàrce, proprio tu mi hai descritto la funzionale armonia del luogo in cui, prima di venire esiliato, avevi a lungo vissuto e, più di ogni altro, sei dunque in grado di descriverne, almeno approssimativamente, l’aspetto generale. Ricordi …? Oltre ad avermene descritto gli edifici e le piazze, mi hai anche accennato ad un modo per far defluire, attraverso un sistema di molteplici canali di scolo, tutti gli scarichi nocivi che ammorbano invece il nostro villaggio. Potremmo tentare di fare altrettanto anche noi!> e Rea Silvia, nell’entusiasmo della proposta, non si accorse di aver anche incluso se stessa nell’acquisizione del progetto che le era andata proponendo, ma lui parve non farvi caso. …………………………………………….
C A P XVII
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La notizia della nuova città – che era sorta in tempi relativamente brevi, ma già così ben strutturata e dotata di un’efficiente organizzazione – si sparse ben presto nei dintorni e, com’era sempre accaduto in situazioni pressoché analoghe, richiamava tanta gente alla ricerca di un’occupazione o che, semplicemente, coltivava la speranza di poter finalmente mettere radici da qualche parte: un nuovo insediamento era l’ideale per ricominciare, poiché in un società ancora “in fieri” e con la volontà di liberarsi dal passato, non si facevano troppe domande e v’era sempre un gran bisogno di altre braccia e di nuove idee.
Rea Silvia non si allontanava quasi mai dalla sua nuova casa – che aveva sostituito l’odiata “tenda reale”, occupandone però lo stesso spazio, alto sulla collina – ed osservava con una sorta di straniamento l’arrivo sempre più corposo di persone che chiedevano di rendersi utili, al fine di poter un giorno entrare a far parte della città.
Al limitare dell’abitato sorgevano infatti già nuove tende e capanne provvisorie di chi sperava di venir presto assorbito in quell’ambito contesto edilizio.
“Cosa mai diranno un giorno ..?” pensò guardando quel gruppo di disperati che, ora, stavano arrivando alla spicciolata, ma presto – lo intuiva … lo sapeva – avrebbero affollato quella città “Cosa resterà di me, di mio figlio, di Vesta? Avremo mai un posto nel futuro irripetibile di questo sogno che è divenuto realtà?”
L’orgoglio di rimanere nella memoria … di “sopravvivere”, insito in ogni essere umano, sfiorò anche lei, e Rea Silvia, chiudendo gli occhi, riassaporò quel sogno che, anni prima, l’aveva già introdotta in quel futuro che, materialmente, non avrebbe tuttavia vissuto.
Rivide gli archi imponenti, le snelle, eleganti colonne, i templi maestosi e l’acqua cristallina che zampillava dalle mille fontane. Vide uomini fieri che marciavano solenni verso un destino che apparteneva loro e che non avrebbe avuto eguali …
Sorrise, paga comunque di quel contributo che lei aveva dato, e riaprendo gli occhi, assaporò quel tramonto smagante che infuocava il cielo (e che, anche se lei non lo sapeva … non poteva saperlo, tanto sarebbe divenuto celebre in quell’avvenire che pur non le apparteneva)

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